mercoledì 28 marzo 2012

FRANCESCO PALMIERI - TRE POESIE








Francesco Palmieri (Altamura [Bari], 1953). Docente di Materie Letterarie. Vive nell’hinterland milanese. Nessuna opera finora edita, se si escludono alcuni interventi in un’antologia (LietoColle) e in una rivista letteraria (Historica). Palmieri è presente su facebook e in alcuni siti di poesia. 

« Non posso negare il carattere filosofico del mio ‘fare poesia’ e nemmeno l’esercizio di un’amplificazione del senso letterale (o tautologico) del linguaggio, il che significa essenzialmente aver cercato di riprodurre l’eco emozionale che caratterizza alcune cognizioni strutturali dell’essere e dell’esserci. Il tempo non è un’unità di misura, soltanto. La Storia non è divenire, soltanto. E l’umano non è testa-tronco-braccia-gambe, soltanto. Ed è in quel valore aggiunto, in quella violazione della tautologia che si annida il luogo-non luogo emozionale da cui il fare poesia attinge. In fondo la poesia è una didascalia interiore, a margine della ragione e della coscienza, non per niente spesso si evoca la musicalità (del verso), e altrettanto spesso le si affida l’arduo compito di dare forma e voce a quei tratti imponderabili del sentire che, senza la poesia, rimarrebbero l’indicibile, l’inaccessibile, l’ombra scura del discorso esplicito. Insomma… ci si prova a non far estinguere lo sconcerto dell’anima, ci si prova ad affermare e riaffermare che forse il mondo non è solo ciò che accade ma anche ciò che, pur accadendo, non si vede... ». 
Francesco Palmieri



AGGIORNAMENTO BIO-BIBLIOGRAFICO DEL 26 MARZO 2014: 

Nell’autunno del 2012, per i tipi de La Vita Felice,  il nostro Autore pubblica la raccolta poetica dal titolo “STUDI LIRICI (Solo parole d’amore)” [ la cui scheda descrittiva – che di seguito riportiamo – è visibile sul sito della casa editrice all’indirizzo: http://www.lavitafelice.it/scheda-libro/francesco-palmieri/studi-lirici-9788877994608-35202.html ]. 

Non è facile parlare d’amore. E soprattutto è difficilissimo scrivere poesie d’amore. Non è facile dopo Prévert, Neruda, Salinas, Hikmet ed altri ancora. 
Ma l’amore non appartiene all’esclusivo sentire – per quanto raffinato – dei grandi poeti, l’amore non è circoscrivibile all’interno del linguaggio di poesie che pur hanno saputo toccare i vertici del sublime o la dimensione abissale e seduttiva della tragedia erotica; l’amore è un sentimento originario, primario, archetipico, che attraversa tutta la Storia umana, tanto è radicato a fondo in ogni uomo e donna; ed è per questa ontologia dell’amore che se ne è scritto, se ne scrive e, presumibilmente, se ne scriverà.
Gli «Studi lirici» si inseriscono idealmente in questa immaginaria filogenesi, forse con l’intento di testimoniare al presente, nell’ora e qui, come ancora oggi agisca, incida e funzioni la fisica e la metafisica dell’amore, quell’Eros così universalmente provato, vissuto e patito, seppure attraverso il filtro – e non potrebbe essere altrimenti – di un Io che vi si pone di fronte, armato unicamente di ascolto di sé e di parola. Non a caso il sottotitolo della silloge è «solo parole d’amore». 

[...] sono un percorso intimo-erotico che non solo pare indicizzare il divenire dilemmatico dell’amore, il suo doppio volto sublime/terrorizzante, ma hanno contestualmente una implicita funzione di catarsi, di necessario abbandono e poi liberazione nella e dalla conflittualità eros/pathos, una sorta di tentativo estremo di dire, raccontare l’esaltazione e la caduta quando Amore diventa il linguaggio fra un Io e un Tu.









Cambi di stagione

Si è aspettato a giorni il mondo che verrà

(era in attesa sul finire di una buonanotte,
oltre la storia e i baci prima di dormire,
era inciso su cupole fra firmamento e cielo
che bastava una preghiera perché dio
vi si affacciasse al volo,
e poi sospeso sopra labbra rosse
quando l’amore non era un dopo
di lenzuola sudate da lavare),

si è aspettato, noi, 
come bambini seduti sopra a un molo
coi piedi in pesca dentro acquario e mare
e gli occhi di vedetta in cima a caravelle
(perché i bambini hanno angeli per ciglia
e coperte con le stelle sulle spalle,
perché i bambini sono senza confini
ed hanno passi alti dalle montagne al cielo).

Poi vennero gli anni scivolati in acqua:
un tempo per il tuono delle cannoniere,
un tempo per il fumo delle petroliere,
un tempo per l’utopia caricata dalla polizia,
un tempo per un muro al fondo d’ogni via.

E adesso è solo vivere al presente,
lo spazio di giornata o qualche minuto appena,
e se mi affaccio un tanto sulla riva
lo so tutto il silenzio a perdita di vista,
il nientenulla oltre la superficie
ed un bisbiglio di cordoglio dentro cattedrali,
così, come viene naturale dopo la strage,
ad ogni genocidio di generazione
quando infine si capisce
che si nasce per le stelle
e si muore in una cella.



Peso a peso

(…siamo nati a morire
e ancora questo non basta…)

Non basta farsi certi a poco a poco
che gli anni invulnerabili sono contati
e poi solo il cadere ad una ad una 
di scaglie di metallo dalla pelle
(e carne, soltanto carne esposta,
dai piedi e alla testa, intorno a braccia e cosce,
nel cavo del torace, nel ventre gommapiuma,
carne soltanto col marchio di memorie
che furono corse sott’acqua e pioggia senz’ombrello,
la svolta in un portone ed una rosa,
il bacio ed una rosa, e l’infinito intorno).

Non basta sovrapporre peso a peso,
comprimere le spalle di zavorra e terra
(e rami fracassati per caduta da sospensione al suolo,
e voli trasparenti che hai aspettato in anni
perché non era ancora il tempo degli spari,
dei colpi di fucili nascosti nelle siepi
e i passeri a stramazzare, i cani ad abbaiare,
e terra tutt’intorno, soltanto questa terra.).

Non basta lo spirare goccia a goccia,
segnare il passo per l’ultimo corteo
(e chiudere la casa dopo il lutto,
scenderne le scale per non salirle più)
e poi ancora uno che forse ti aspettavi
e poi ancora un altro venuto di sorpresa.
Non basta accorgersi e non dirlo
che i vecchi se ne andranno
e resteranno i figli,
che certo è ancora vita il giro di clessidra
ma come sarebbe stato 
il durare gli uni e gli altri
lo spazio di un eterno
e non giorni d’inferno
per i sopravvissuti.

Siamo nati a morire,
e fosse stato questo il neo,
il punto di scadenza di una stagione sazia,
un reclinare il capo come i fiori,
un chiudere le imposte per dormire,
l’andarsene non visti, senza lasciare croci,
svanire fra le stelle e nessuna guerra,

sarebbe stata vita, un giorno lungo un sogno,
il canto di un delfino a navigare il mare.

(Ma forse questo
dio
ancora non l’ha visto).



Studio lirico 1

Non seminare stelle

nel mio buio,

lasciami
talpa d’inverno e neve,

non svegliarmi
se non è certo
che il cespuglio ha gemme
e il giorno è luce
e intiepidire l’erba.

Non svegliarmi
se non sei primavere da portarmi.















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6 commenti:

  1. A leggere e rileggere le poesie di Francesco Palmieri, mi è capitato dapprima di pensare inspiegabilmente a Wittgenstein (che mi ha accompagnato sempre, dai 25 anni in poi), forse in ragione di una ritrosia avverso i clamori del mondo, che al filosofo apparteneva. Ma c'era altro, c'era lintero spirito del Tractatus wittgensteiniano, a partire da: "Il momdo è tutto ciò che appare" per finire a: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Ma il mondo vuol essere detto, nominato, descritto. vissuto, odiato e amato... mentre nulla si puo tacere anche se l'insufficienza di "un" linguaggio lo pretenderebbe... Nella strettoia fra il primo "satz" e l'ultimo del Tractatus, pareva a me che si snodasse una sorta di accidentato cammino, e proprio là, come accade nei sogni, collocavo il farsi della poesia del nostro Francesco. Ma dopotutto siamo anche vicini al Prufrock eliotiano, personaggio dalle indicibili teoretiche sofferenze, dalla vita ormai snaturata. Siamo come Prufrock immersi in un mondo impazzito, che tuttavia bisogna dire, anche se questo ci mostra. come in uno specchio, tutta la nostra sofferenza e ci spinge verso la più amara ironia. Il rombo soffuso e persistente, nella poesia di Francesco Palmieri, è quello che preannuncia la più prepotente delle tempeste. Mi auguro che voglia ancora permetterci di leggerlo. A.C.

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  2. A leggere e rileggere le poesie di Francesco Palmieri, mi è capitato dapprima di pensare inspiegabilmente a Wittgenstein (che mi ha accompagnato sempre, dai 25 anni in poi), forse in ragione di una ritrosia avverso i clamori del mondo, che al filosofo apparteneva. Ma c'era altro, c'era l'intero spirito del Tractatus wittgensteiniano, a partire da: "Il momdo è tutto ciò che appare" per finire a: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Ma il mondo vuol essere detto, nominato, descritto. vissuto, odiato e amato... mentre nulla si può tacere, anche se l'insufficienza di "un" linguaggio lo pretenderebbe... Nella strettoia fra il primo "satz" e l'ultimo del Tractatus, mi pareva che si snodasse una sorta di accidentato cammino, e proprio là, come accade nei sogni, collocavo il farsi della poesia del nostro Francesco. Ma dopotutto siamo anche vicini al Prufrock eliotiano, personaggio dalle indicibili teoretiche sofferenze, dalla vita ormai snaturata. Siamo, come Prufrock, immersi in un mondo impazzito, che tuttavia bisogna dire, anche se questo ci mostra. come in uno specchio, tutta la nostra sofferenza e ci spinge verso la più amara ironia. Il rombo soffuso e persistente, nella poesia di Francesco Palmieri, è quello che preannuncia la più prepotente delle tempeste. Mi auguro che Francesco voglia ancora permetterci di leggerlo. A.C.

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    1. Grazie Antonino, sarà un caso ma anch'io ho avuto il mio momento wittgensteiniano; non che lo abbia studiato a fondo ma ero assolutamente attratto dai principi della logica proposizionale e fra Russel, Chomsky e Wittgenstein era una crapula. Fra teoria dei tipi, grammatica generativa e tautologia, vi era da rompersi il capo è vero, ma anche il richiamo ad una forma di pensiero che fosse la più rigorosa possibile nel rapporto fra linguaggio e rappresentanzione. La massima "Il mondo è ciò che accade" in qualche modo mi è servita a non amplificare troppo i contorni della realtà ma soprattutto ad andarci cauto con sublimazioni e demonizzazioni; mentre l'altra, "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere", l'ho sentita spesso quasi come un'interdizione all'esercizio della "perversione metafisica" o generalmente spiritualista. Insomma due guardiani molto armati contro derive irrazionali o facili fughe parareligiose. Non posso negare il carattere filosofico del mio 'fare poesia' e nemmeno l'esercizio di un'amplificazione del senso letterale (o tautologico) del linguaggio, il che significa essenzialmente aver cercato di riprodurre l'eco emozionale che caratterizza alcune cognizioni strutturali dell'essere e dell'esserci. Il tempo non è un'unità di misura, soltanto. La Storia non è divenire, soltanto. E l'umano non è testa-tronco-braccia-gambe​, soltanto. Ed è in quel valore aggiunto, in quella violazione della tautologia che si annida il luogo-non luogo emozionale da cui il fare poesia attinge. In fondo la poesia è una didascalia interiore, a margine della ragione e della coscienza, non per niente spesso si evoca la "musicalità" (del verso), e altrettanto spesso le si affida l'arduo compito di dare forma e voce a quei tratti imponderabili del sentire che, senza la poesia, rimarrebbero l'indicibile, l'inaccessibile, l'ombra scura del discorso esplicito. Insomma, caro Antonino, ci si prova a non far estinguere lo sconcerto dell'anima, ci si prova ad affermare e riaffermare che forse il mondo non è solo ciò che accade ma anche ciò, pur accadendo, non si vede...
      Di nuovo grazie. Di certo avremo ancora modo di leggerci. Ciao e buona serata.

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  3. Conosco molto bene le poesie di Francesco Palmieri. C'è qualcosa nel suo scrivere che mi risuona inevitabilmente, come una conoscenza segreta, un fiume che lava gli stessi piedi. Trovo i suoi versi eleganti e necessari e questo gli dà merito non solo come scrittore ma anche come essere umano. Un essere umano che cerca, che si sporca le mani, che annega nei suoi stessi versi (ma come un bambino in una pozzanghera). Grazie di questa bella pagina a Poesia Aperta.

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    1. Grazie Alessia per le tue gratificanti parole. Mi fanno immensamente piacere, tanto più che ho imparato a conoscere la profondità del tuo sentire, l'acutezza della tua sensibilità e il valore alto che tu stessa sai dare alle "parole". Ti sono sinceramente grato.

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  4. Leggere Francesco Palmieri è un ritrovarsi continuo in ricordi vissuti e in situazioni sperimentate (“i baci prima di dormire”, “seduti sopra a un molo coi piedi in pesca… e gli occhi di vedetta”), in attese di baci e di rose, in sogni “fra firmamento e cielo” che a fatica si mantengono reali nella cronologia del quotidiano.
    Il sentimento dell’attesa qui resta deluso perché nonostante i cambi di stagione, si vive alla giornata, in un’alienante condizione di “nientenulla”, in una realtà fatta solo di silenzio, solitudine e clausura.
    Nonostante le premesse degli “anni scivolati in acqua” e le promesse di voli, di mare e di cielo, la stagione ricorrente per il poeta e per noi, con lui, è l’inverno. Meglio dunque continuare a dormire nel proprio letargo piuttosto che essere svegliati senza la certezza di una luce piena che riscaldi l’animo se chi arriva è privo dei doni della primavera. È sconfortante allora giungere alla consapevolezza che si nasce per le stelle, con “l’infinito intorno”, con l’invulnerabilità propria degli dei se ben presto si diventa “carne esposta”, priva della protezione delle “scaglie di metallo” che all’inizio costituiva la nostra corazza.
    E poi “si muore in una cella… col marchio di memorie” di esperienze e conoscenze che si sedimentano e che contribuiscono alla nostra formazione ma che difficilmente insegnano a non soffrire. “Siamo nati a morire”, come i fiori quando reclinano il capo, come i passeri quando stramazzano, feriti dagli spari. Leggendo Francesco il riferimento a Leopardi è d’obbligo quando scriveva:

    " O natura, o natura,
    perché non rendi poi
    quel che prometti allor? perché di tanto
    inganni i figli tuoi?

    Questo è quel mondo? questi
    i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
    onde cotanto ragionammo insieme?
    Questa la sorte delle umane genti?”

    Nonostante ciascuno di noi abbia sogni e ambizioni, passioni e ideali, siamo giocoforza sottoposti al dolore anche se eravamo destinati ad essere felici e quando una gioia ci viene data dura sempre solo il tempo di un attimo...
    Al poeta e all’uomo resta però la consolazione di riconoscere le cose belle che ci sono rimaste del paradiso, le stelle, i fiori e i bambini “senza confini” e “dai passi alti dalle montagne al cielo”.
    Difficilmente si leggono oggi liriche di tale livello espressivo tanto la scrittura è preziosa ed elaborata in alcuni costrutti e allo stesso tempo così intima e colloquiale, vibrante, appassionata e incisiva in altri.
    Il buon poeta è colui che scrive il presente, che frequenta il dolore, che in ogni sua creazione dona un frammento di sé. Per questo penso che Francesco sia un ottimo poeta, che meriterebbe senza alcun dubbio di imporsi all’attenzione del pubblico e della critica contemporanea.
    Ringrazio Poesia Aperta per questa proposta di lettura assolutamente convincente e interessante.

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