sabato 1 settembre 2012

Antonio Ciminiera - dodici poesie, dalla raccolta inedita: « Condannato per insufficienza di prove »







Notizia bio-bibliografica:

Antonio Ciminiera è nato a Potenza ma vive in provincia di Torino da sempre. Si occupa di restauro e del commercio di mobili d’antiquariato.
Nel 1985 ha pubblicato per le Edizioni Pentarco un volume di poesie dal titolo L’ultima estate, Premio Lunigiana per l’editoria ’86; Premio Bardonecchia ’86. Sue poesie sono state pubblicate in numerose Antologie fra le quali gli piace ricordare: Argini, Antologia della nuova poesia italiana curata dal giornalista e critico Fulvio Castellani. Ha vinto diversi Premi letterari anche importanti ma non ama elencarli. Il suo motto è: Il premio che mi gratifica di più e al quale faccio riferimento, è lapprezzamento sincero di chi mi legge. Gli piace sconfinare ogni tanto nella narrativa e ha al suo attivo due romanzi inediti: Flavia dagli occhi d’Irlanda, scritto fra il 2002-2003 e La finestra sul tetto, scritto nel 1986. Nel 1987 ha fondato con la poetessa Fulvia Gambero, il Premio letterario Palazzo Grosso e del quale è stato presidente di Giuria per 11 anni. 



Ad Antonio Ciminiera abbiamo già dedicato un post (si veda: Antonio Ciminiera - Dieci poesie, dalla raccolta inedita: « La stagione dell'amore assurdo » ). 

Nel post menzionato appaiono alcune note intorno alla Poesia di questo Autore. 
Il lettore interessato potrà leggerle sotto il titolo: L’atelier du poète (note sparse sulla Poesia di Antonio Ciminiera).



Sulla raccolta inedita: “Condannato per insufficienza di prove”. Ancora qualche nota sul far poesia di Antonio Ciminiera 

Plato iudicium dedit
Tutto ciò di cui all’uomo perviene testimonianza (sia essa storica o antropologica, o provenga da leggende e miti un tempo affidati alla tradizione orale, o giunga invece attraverso la scrittura e l’arte in tutte le sue forme ed espressioni - purché codificate e sempre decodificabili), tutto ciò che è lascito e testimonianza, dicevo, contiene in sé infiniti elementi di realtà. Elementi che sono particolari, in quanto portatori di altra realtà, ancorché decifrabile e quindi percettibile ai sensi, al sentimento, alla ragione, attraverso il filtro dell’intelletto. Così è anche del Poeta, di cui nulla sapremmo senza i suoi versi, unici testi a carico (mai a discarico in certi casi) in un procedimento di individuazione di colpa. Giacché il Poeta non è mai innocente: egli, posto di fronte ai propri versi, non dirà mai: “Non sono stato io”.
Nel caso specifico - singolare e unico - di Antonio Ciminiera, com’è chiaramente avvertibile sia in queste poesie che in quelle precedentemente pubblicate su questo blog, egli è stato ed è senza alcun dubbio colpevole di intima confidenza, in un rapporto con la Poesia che è quello esclusivo, e socialmente pericoloso, degli amanti. Egli è colpevole di vivere con la maggior dedizione e fedeltà possibile questa sua civicamente inaccettabile, e dunque condannabile, condizione di Poeta. Certo, un’imputazione così decisiva non avrebbe ragion d’essere se ci trovassimo in una Pólis governata in modo equo dai suoi cittadini e non soggetta ad alcuna forma di tirannia (sia pure “illuminata”), perché, in una società di tale tipo, il Poeta non sarebbe altro che un lusso, un superfluo eppure luminoso cantore della Bellezza e della beatitudine del cuore, così come dei sentimenti, le gioie, le sofferenze del singolo. Ma se invece fossimo, come di fatto siamo, immersi in una società del tutto diversa, e penso a quella odierna e globalizzata, dove le tensioni e le sofferenze individuali sembrano tendere a un continuo accrescimento, sembrano volersi fare perfino insostenibili, al punto da diventare istanze inevitabilmente collettive, allora ecco che il ruolo del Poeta e dell’Artista si fa essenziale e realmente determinante nello svelare agli uomini ogni verità mascherata o negata dai detentori del cosiddetto potere costituito. Ma come dice il titolo della raccolta, “Condannato per insufficienza di prove”, da cui le poesie qui pubblicate provengono, le prove a discarico del nostro poeta, vale a dire i suoi versi, sono insufficienti a garantire un verdetto di assoluzione. Il che, in altre parole, vuol dire che tali versi non sono abbastanza irrilevanti, non hanno la necessaria insignificanza, non sono le parti innocue di una vana e vuota pseudo-poesia, che anzi è vero il contrario: c’è nella scelta di vita, nella Poesia e nella Poetica di Antonio Ciminiera una forte, matura consapevolezza di sé e del proprio valore, come c’è il senso della grandissima responsabilità che investe il proprio ruolo di Poeta. E questo, per quanto inverosimile ciò possa apparire, è forse non facilmente, ma certo felicemente deducibile proprio dai versi che egli scrive, dai titoli che dà alle sue poesie e alle sue raccolte. 

Il “tu” come prossimità e alterità 
Io credo che per l’Homo sapiens sapiens il “tu” sia la parola più umana, la più degna da pensare, sentire e pronunciare, e credo che tale parola racchiuda in sé l’alterità per eccellenza, che è anche la maggior prossimità possibile con l’Altro da sé, perché nel “tu” abita ciò che si svela ma rimane pur sempre inafferrabile, e dunque proprio in quell’inafferrabile, misterioso insieme di significati che questa parola riesce a contenere, evocare, rappresentare, sta racchiuso ciò che ad ogni individuo umano è necessario non tanto per esistere quanto, invece, per essere. Questa mia convinzione, per quel che ho potuto sperimentare vivendo, è anche condivisibile e, per fortuna, sufficientemente condivisa, sia nel vivere quotidiano di molte persone sia in campo filosofico, artistico o letterario. Se poi ci riferiamo all’ambito poetico, credo proprio che il “tu” sia il pronome personale più amato e usato da chiunque scriva in versi. Ma com’è ovvio, il preambolo appena fatto intende puntare al cuore dei versi di Antonio Ciminiera, sia quelli di questo post che quelli del precedente. I lettori che come me (o prima di me) si sono accostati alla sua Poesia avranno certo notato come esista nei versi di Antonio un “tu”, assai spesso femminile, cui il Poeta si affida o contro cui lancia la propria sfida in un confronto serrato come con la propria anima, con la propria donna o con una propria trasfigurazione della donna.  Oppure invece, ed è questo il caso più ricorrente, io credo, con la sua problematica esigentissima eppure capricciosa amante, la Poesia. 

Una frase di Ernst Bloch e il coraggio di dire “io” 
“Se qualcuno si incontrasse completamente con se stesso non potremmo più vederlo”, così scrive Ernst Bloch nel suo Das Prinzip Hoffnung (Il principio speranza). Tale frase si presta a svariate interpretazioni e significazioni, questo è indubbio. Tuttavia a me pare di poter dire che la verità della frase sta tutta nell’impossibilita concreta di realizzare una simile assoluta coincidenza, perché non è dato che qualcuno sappia qualcosa di sé se non attraverso il rispecchiamento nell’Altro. Un rispecchiamento che è anche testimonianza, prova e riconoscimento del fatto che questo qualcuno esiste ed è. L’impossibilità blochiana che possa aversi un io totalmente coincidente con se stesso, viene asseverata tramite la sua assoluta non percettibilità.  Purtuttavia è dato a ciascuno di dire “io”, in un atto che non è solo verbale, ma concretamente capace di sopportare interamente le responsabilità individuali e personali che in tale parola sono contenute. E questo vale per ciascuno, così come vale per l’Artista e per il Poeta. Ma, attenzione, anche questo preambolo punta al cuore della Poesia di Antonio Ciminiera, un Poeta che nei suoi versi come nella sua vita mostra senza esitazioni o equivoci tutto il coraggio di dire “io”, vale a dire il coraggio di assumere su di sé un carico di responsabilità individuali che possono anche venirgli dalla cosiddetta necessità della vita, ma che sono il portato fondamentale della scelta di sé come uomo, come Poeta e anche come cittadino, costantemente, apertamente impegnato a rinnovare, a irrobustire le basi della propria, della nostra Pólis, intesa nel senso più ampio, collettivo e umano possibile.
Antonino Caponnetto





Io dormo il sonno degli angeli


io dormo il sonno degli angeli
piombato a queste ali
come fossi un sussurro d’amore
abbandonato alla fonda di ogni lacrima
schiavo di un volo mai raccontato







Città sepolta


[mi contieni in un bicchiere di silenzio]
se ti sapessi ancora vino tracimante [sterile al dolore]
rea di sola ebbrezza
in questo inutile travaglio senza parto
in questa morte che non consente morte
Se ti sapessi arnia di questo amore incolto
almeno un boccale di sola nostalgia [e non di pace]
mi strapperei dagli occhi l’alba di ogni addio
ti strapperei dal cuore la mia città sepolta







Heaven Out of Hell


Cercami
non avere paura
so contenerti in un sospiro
nella clausura delle mie mani
ma fa che per un giorno soltanto
l’inferno sia il paradiso
fa che l’inferno sia il paradiso
perché non navigo ragioni
se non quella dei tuoi occhi







Atto primo


cosa m’invento ora
cosa racconto
a questo cuore alchemico
a questo purgatorio d’altomare
La mia bocca
è un morso d’antracite
un abisso d’inquietudine
che ancora non si serra
in questo vortice di morte
se non per contenere un urlo







Chi di noi due


“chi di noi due cede per primo
se io e te scavati nel cuore
ci arrendiamo muti agli sguardi
e nulla ci contiene
se non la demenza degli anni
l’angoscia di saperci ancora insieme
e lontani”







Vorrei scalare le tue mura


Vorrei scalare le tue mura
fino a raggiungere il sesto della tua memoria
ma non sei che una ragione incerta
il prezzo di un riscatto da pagare ogni volta
anche se t’amo







Cielo d’India


navighiamo di sguardi
indifferenti e puri
e abbiamo il vuoto nella mente
come se il cuore fosse
una promessa da inventare
ma ora siamo ancora qui
così sereni e imprevedibili
chiusi in questo vuoto d’India
e tutto si rivela
fuoco d’argilla
in questa pace arida
che chiamano carne







Presenze


io sono una fiaba o un sospetto di cielo
e se mi perdo ti ritrovo nel medesimo cielo
perché siamo carne soltanto per gioco
anime strappate alla vita e ricucite altrove







Distanze


non so nulla del tuo mutamento
di quella buca che nascondi dentro gli occhi
ma so che il tuo respiro
è un convitto di voci mercenarie
e non ti amo se non di una pietà sovrana
di una distanza che non si può colmare







Invisibili


non chiamatemi dono di Dio

perché stringo fra i denti
il morso della sua indifferenza
Sepolto nella luce bianca
del mio purgatorio
mi rifletto
vuoto nello specchio
codice d’onore nella mente
di chi mi appartenne
e ora non mi vede







E non lasciarmi qui a seminare il cielo


e non lasciarmi qui a seminare il cielo
appartengo alla tua ragione immutabile
a quel capriccio di anime imperfette
a una sola indecifrabile carezza
che dal tuo cuore tentò il suo volo







...Cavalchi le nuvole e non sai

che qui si muore dopo un clic
crocifissi sullo schermo
senza nemmeno un perché 




                                         dalla raccolta inedita: Condannato per insufficienza di prove  















domenica 20 maggio 2012

SEBASTIANO ADERNO' - QUATTRO POESIE TRATTE DA "IN LUOGO DEI PUNTI"






Nel 2010 vince il “Premio Ossi di Seppia” e si classifica terzo al Premio di poesia “Antonio Fogazzaro”. Dopo la sua opera prima Per gli anni a venire, Lietocolle (2011), ha pubblicato una raccolta dal titolo Kairos, Fara Editore (2011) e In luogo dei punti per Thauma edizioni (2012). Fa parte del collettivo ultranovecento, che realizza libri d’artista, con cui ha pubblicato una plaquette, Abissi non richiesti (2011), con un’opera di Marco Baj. È in uscita un romanzo, di cui è co-autore assieme al filosofo Leonardo Caffo, dal titolo Luci sulle lucciole per Edizioni Montag. 



IL LUOGO DOVE FUI IL LUOGO DOVE SARO’
(nel tempo che fui nel tempo che sarò) 

Questa raccolta di Sebastiano Adernò è una risposta forte e civile all’enorme quantità di dolore che ho visto nella mia esistenza, quale poeta ma, soprattutto, quale militare (ora ex) in zone di combattimento (anche da Adernò ricordate). Ormai è più che evidente che il problema “del male di vita” non lo si può risolvere a livello puramente intellettuale, perché sia l’irrazionale sia la carne vengono coinvolti, lanciando il loro grido, dimenandosi, creando forme, ulcerazioni, visioni, oppure impalpabili spettri (… le presenze peggiori). 
Infine è con tutto il proprio essere, in idea, in materia e in spirito, che avvertiamo l’ombra lunga che proietta  “la valle della morte”, acquisendo, in quella tenebra, verità fondamentali sulla nostra condizione umana. 
Scriveva Pascal: “Noi navighiamo in un vasto oceano, sempre incerti e instabili, sballottati da un capo all’altro dai flutti. Qualunque scoglio, a cui pensiamo di attaccarci e restare saldi, viene meno e ci lascia e, se l'inseguiamo, sguscia dalle nostre mani, ci scivola via e fugge in un’eterna erranza. Per noi nulla si ferma.” 
Quindi, e senza alcun dubbio, in questa vita si cresce, quasi unicamente, attraversando le avversità, e le sofferenze che esse procurano, piuttosto che tramite il successo, la vanità, l’illusione, la felicità, la gioia. 
Perciò è “nel perdere il vano sorriso” che si afferma il nostro essere e il nostro divenire, non tanto “nel vincere”, perché nulla c’è da vincere, se non, appunto, il Nulla. 
Infatti l’uomo che rincorre la fama in questa vita e, magari, la raggiunge, poi perderà tutto quando morirà, ma l’uomo che è già disposto a perdere fin dall’inizio e si pone sguarnito, semplice, conscio di tale condizione, diviene intoccabile anche di fronte alla morte, oltre che inarrestabile da chiunque altro, ed è allora che la sua pericolosità, qualora decida di agire in nome di un ideale, diventa a tal punto devastante che nessuno potrà sbarragli la strada, nessun proiettile lo ucciderà, nessuna parola di offesa lo scalfirà, e “il sorriso”, quello scaturito dalla consapevolezza di una condizione, carezzerà le sue labbra. 
L’apostolo Paolo più volte usò il termine greco astheneia per indicare come l’uomo, in corpo e in spirito, spesso si ritrovi in uno stato di fiacchezza, di debilitazione, quando le prove si fanno pressanti, ma astheneia significa anche precarietà, insufficienza, incapacità degli uomini di rapportarsi fra loro e di compiere il bene. 
Io sono certo che Sebastiano Adernò, partecipe laicamente di questa nostra mancanza costante (… soprattutto in questi tempi), abbia cercato, tramite il richiamarci a immagini cruente e a condizioni limite, di farci immergere nella nostra “zona oscura” al fine di attingere, proprio da quella, il coraggio e la fermezza per definirci vulnerabili, piccoli, polvere, muffa, ma pur sempre combattivi, pur sempre pronti a reagire, a porci presenti allorquando la necessità di scendere in campo ci chiama. 
L'incontro col terrore o, peggio, con l’orrore diventa, così, non solo un’esperienza di ordine individuale, ma comune, ‘junghianamente’ collettiva, planetaria, cosmica. 
Platone, Aristotele, Pitagora, Giordano Bruno, Spinoza, Leibniz e molti altri filosofi hanno spesso tirato in ballo le Monadi (dal greco monos, che significa uno, singolo, unico) per giustificare, teoricamente, anche le diversità fra individui, ma per tutti loro, sopra le stesse, esisteva un sola capacità ultrasensibile, totalmente altra, di trascendenza, riconducibile all’intero genere umano, che gli artisti definiscono, qualsiasi disciplina espressiva pratichino, poesia
Per il grande John Donne essa era la risposta per risolvere, dialetticamente, il proprio e l’altrui conflitto intellettuale e morale tra la difficoltà se non l’incapacità di relazione (la Babele) e il desiderio di reciproco slancio osmotico (l’Eden), essendo, la “sostanza” dell’esperienza esistenziale umana, infine la stessa in ogni individuo, seppure in tempi e spazi diversi. 
La poesia diviene così collante eterno che, abbattendo dimensioni spazio-temporali, ci unisce, ci lega, ai nostri contemporanei, ma anche a chi fu e a chi sarà, dimostrando-concretizzando tale comunione a seguito del come singole parole, oppure versi, o l’intero insieme lirico, colpiscano chiunque la cerchi e poi si trovi al suo cospetto, facendolo vibrare, facendolo pensare, facendolo emozionare e commuovere, per poi riportarlo al principio energetico, unico, che ci ha partorito. 
Reputo che la ricerca di un’azione comune e di un respiro condiviso sia, quindi, il volano del poetare di Adernò il quale, “in luogo di punti”, va a tracciare una linea (dialettica) ben netta fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto (operazione più che necessaria quando il Kaos diviene condizione dominante), ma tale linea poi diviene curva, e infine circolo (l’ a b c nella geometria euclidea come nella fisica quantistica) ritornando punto, se trasportata in ambito più vasto, e in tale cerchio-punto risiede il poeta, e lì sta, quando l’intero inizia a giragli attorno (vita, morte, guerra, carestia, vendetta, origine, fine, dolore, sangue, alienazione, bisogno, assenza totale dello stesso… cioè la vita nell’interezza e le tante vite di chi è venuto prima di lui, verrà dopo, ed è nel - suo - con/tempo). 
Lao Tzu, con saggezza mistica, diceva: “Senza muoversi si può conoscere il mondo, senza guardare fuori dalla finestra si può vedere la via del cielo. Più si va, meno si sa.” 
Anche senza essere andato, ecco come il poeta entra nell’umano, viaggia nell’altrui e, con l’altrui, percepisce, coglie, sente, immagazzina, diviene biblioteca e memoria, elabora, emette, in modo da poter dire anche se non ha vissuto ciò che invece, a un suo simile, ha ustionato la pelle. 
Ed ecco il perché uno come me ascolta Adernò, perché Adernò ha testimoniato egregiamente, e testimonia, senza essere stato presente, o essere presente (e lo ripeto), quello in cui io, invece, mi sono immerso e ricordo, in cicatrici, più che bene. 
Ogni uomo è lo stesso uomo seppure in tempi e spazi diversi… rammentiamo tale assioma quando ci avviciniamo alla poesia, quando decidiamo di ascoltare il poeta (… il vero poeta), perché egli non finge quando dice di essere stato colpito all’addome in Libia, sebbene mai sia stato in Africa, così come non mente quando afferma di avere partorito un figlio, sebbene egli non sia femmina, ma maschio. 
Il poeta è quell’uomo che raccoglie in sé tutti gli uomini (tutti i punti) e se ne fa carico (e dico questo senza alcuna retorica), è quell’uomo che ha stretto alleanza con loro, è quell’uomo che di loro si preoccupa, è quell’uomo che li vive e da loro si fa vivere, consapevole che “i confini dell’anima sono irraggiungibili, per quanto si trovino nelle più estreme profondità del singolo, come nelle più alte vette della moltitudine” (Eraclito), e Sebastiano Adernò sa bene questo, ma di ciò non si vanta, altro non fa che sottostare a un compito, e tracciare tangenze e diagonali. 
Perciò “in luogo dei punti”, un contatto. 

Gian Ruggero Manzoni 
[ Postfazione alla raccolta In luogo dei punti ]









Luglio nero del 1995



Luna grave, barbara voglia
vita magra
fino al collare di puttana.

La notte era avvezza
alle protuberanze di un rospo
che sbraitava con tutta la disfatta
stipata nel gozzo.

Mladić teneva accesa la paura del buio
così
suonò due volte la mezzanotte
e uscì lesercito
per andare ad incidere
di sette millimetri
la ghiandola colpevole
dell'altra razza.






Samir



Ha attraversato il diluvio.
Ripassato il gesto
da un polso allaltro.

Fuggire di notte. Tra le bombe.
Come compilare un errore
e portarselo per mare.

Cinque giorni
scandendo le parole:

perciò - figlio mio -
gioiello
sfuggi al macero,
non cadere nel tranello apparecchiato,
taci, prega
e scalza la faciloneria di ogni invito.

I trafficanti son golosi di ortica.

Tu mantieniti puro
meridiano,
collegamento al perfetto calendario,
di ciò che in te
- con una lacrima aggiunse -
ha predisposto il cielo.






Il sarto di Ulm



Stamane anche il sarto
è convinto che si possa volare.

Ma il padrone forte
daver imparato a dire noi
per evitare di essere sincero
lo licenza ridendo del candore
della sua obiezione.

Dietro i telai come bottoni trattenuti
alla provvidenza dei mansueti
                               gli altri osservano,
poi qualcuno
stanco di mimare la pace
sforbiciando in verticale
si libera dal grembiule le scapole
corre al megafono e lo senti urlare:

PER SCARDINARE
SERVONO GLI ZIGOMI SPORGENTI
DEL MILIZIANO
DUNQUE
SCIOGLIETE I CANI
AFFONDATE GLI INCISIVI
NELLA TRAVE
SEGATE I TIRANTI
DI QUESTO CIRCO TRONFIO
E SODDISFATTO
COME LORGOGLIOSA
IMPUNITÀ
DELLE SUE TROIE RISULTANTI.

E il ferro torna a vibrare.






Epigrafe



Io sarò,
e mi coglierai
non in gesti servili
e deludenti
tali da sembrare
altrimenti
robuste faccende
                           del corpo
ma nel macello,
appena sotto il filo di sangue
della mano col coltello
che incide,
scioglie la matassa dei nervi,
solleva la carne.









                  Le poesie qui presentate sono tratte da: 
                  IN LUOGO DEI PUNTI, Thauma Edizioni, 2012











sabato 19 maggio 2012

PAOLO SANTARONE - LAGO DI VARESE





Quel che dice di sé:

« Un po’ di romanzi nel cassetto… poesie e racconti… (tanti).Una scrittura che con slanci e pause dura da più di mezzo secolo…In un lontano passato ho pubblicato testi di divulgazione storica per ragazzi, e molte traduzioni (perfino una versione in prosa dell’Eneide)… Poi sono vissuto della mia scrittura come “writer” in una grande azienda.  Qualcuno là mi chiamò “penna d’oro”, da cui un mio verso “penna d’oro per oro venduta”. 

Nell’ultimo scorcio dello scorso secolo ho fondato, con altri, la rivista on line “Pseudolo” vissuta circa 6 anni. Alcuni abbastanza cospicui ruderi di “Pseudolo” sono ancora visitabili nel sito: www.giuseppecornacchia.com/pseudolo. 

Credo ci sia ben poco d’altro da dire: vivo a Daverio, vicino Varese, mi piace viaggiare e più che bipolare, mi definirei ciclotimico. » 

 

Paolo Santarone, che non conosco come scrittore, comincio però a conoscere come poeta. Un poeta i cui lineamenti sono, di fatto, secondo me, piuttosto “proteiformi”, ma un raro poeta - con una voce e uno stile assai variegati, certo - purtuttavia saldamente in possesso (e pienamente conscio) della sua propria cifra poetica. Un raro poeta ho detto. Sì, perché Santarone conosce a fondo e utilizza l’intera tradizione poetico-letteraria italiana ed europea, e tutto un patrimonio di tradizioni, usi e costumi legati (non solo) all’essere - nella propria anima e nella propria lingua originaria - un lombardo. Il suo lavoro (per quanto poco io possa conoscerlo) contiene, insieme a una sorta di vena epico-visionaria, un'ispirazione antopologico-naturalistica, guidate entrambe, sì dal sentimento, ma per nulla sentimentali… Il suo lavoro, dicevo, è governato anzitutto da un grande rigore metodico. Credo che ciò ne dica tutta la classicità. E c’è anche, nella poesia di Paolo, l’alta ironia tipica dei grandi. Per quanto detto, il nostro poeta – che non occupa alcun posto speciale nella poesia odierna, non sarebbe comunque incasellabile in un qualsivoglia movimento letterario più o meno importante. Egli mi sembra, invece, destinato a percorrere e ripercorrere in solitaria la distanza fra i suoi diversi “cuori”. Il senso di quest’ultima affermazione cercherò di precisarlo così: “il poeta latino Ennio sosteneva di avere tre cuori, tanti quante erano le lingue che parlava: l’osco, il greco e il latino. Ed aveva ragione: ogni lingua infatti, lungi dall’essere soltanto un efficientissimo sistema di comunicazione, è una filosofia, un modo di pensare, di concepire e, secondo alcuni, addirittura di creare il mondo. La lingua è il deposito più profondo di una civiltà; è quanto di più autenticamente proprio e durevole questa va lentamente depositando e conservando nell’intimo della sua storia”, come scrive Fabrizio Galvagni in Piö ’n là , Rime, versi liberi e traduzioni in dialetto bresciano, Editrice La Rosa, Brescia, 1994. D’altra parte un proverbio ungherese dice: Tante lingue conosci (parli) tante persone sei. Per parlare una lingua è necessario diventare un’altra persona: si può, infatti, conoscere veramente una lingua se si impara a pensare come la gente che la parla. Ogni lingua è lo specchio della vita, della cultura di un popolo, quindi della civiltà di un gruppo etnico, di una nazione intera. Nel caso del poeta Paolo Santarone, direi che sono stati e saranno i suoi diversi cuori a determinarne i caratteri essenziali, i cifrari, il multiforme stile, le frontiere da varcare, il destino poetico.

Antonino Caponnetto


AVVERTENZA: di Paolo Santarone cisiamo già occupati su questo blog (si veda: PIERO E IL RITORNO DELLA NEBBIA)









Lago di Varese



I
Saltano i pesci del lago
in questa calda foschia
Rapido schiocco d’acqua
uno spruzzo
e il lento seguire dei cerchi
che quietamente diradano

Gioco d’amore
forse
o
talora
un diversivo contro il predatore
un tentativo di fuga

Sotto il crespo pel d’acqua
qualcosa accade
atto segreto e celato
mistero che le ninfee
e le castagne d’acqua
proteggono
intrico di gambi verdi

Non sa
il pescatore
l’esito della lotta
di sangue o d’amore
A lui solo è dato
vedere quel salto
atto senza apparente ragione
con i suoi brevi effetti
sulla piana densa
opaca d’alghe minuscole
del lago

Pure
il pescatore ha parte
in questi segreti lacustri
lui che quieto da ore
sulla barca aspetta

Aspetto?
Distratto
l’occhio solo di rado cade
sul galleggiante
lontano e improbabile
Non attendo
altro accadimento
che questa vita acquatica

Soltanto sto
Anch’io senza vere ragioni
o con oscuro movente
anch’io puro fatto
essenza
Il pescatore sulla vecchia barca

Questo immotivato essere
fa anche me parte del mistero
attore della recita
in una sala senza spettatori
Lago
barca
pescatore e pesce
e intorno
la spietata agonia del giorno
trionfale corrusca attesa
della melanconia del crepuscolo

E col pesce divido il suo segreto


II
Da quando avevo diecianni
conosco quest’acqua immota
lago senza emissari
uno stagno quasi
una palude

Conosco il suo lento morire
da quando
trovai chiazze verdi sulla pelle
da curare con pomate
dopo un felice bagno
alla Baia del Re

Mai fu agonia così contrastata
né lotta per vivere più forte
Il lago s’è fatto
negli anni
ricetto d’ogni tipo d’uccelli
e i canneti s’estendono
in un brulicare d’anime e di verde

Qui vivono ancora
molti dei miei pesci infantili
lo splendente gobbino
che prende nome dal Sole
l’alborella e il triotto
che qui chiamiamo trollino
riverberanti d’argento
il persico trota
vorace e così sciocco che
noi del lago
diamo il suo nome ai creduloni
la misteriosa anguilla
crepuscolare
e l’infestante scardola
forte della sua
incommestibilità

Qui crescono ancora
piante dai grandi fiori le ninfee
e la castagna d’acqua
dal frutto a tricorno con cui
ai tempi
s’ornavano di collane le ragazze

Scomparsi
invece
il luccio
barracuda delle saghe piscatorie
e il persico reale
dalla livrea striata

Scomparsi

La memoria soltanto mi riporta
a quei fanciulli pescatori
con le gambe a mezz’acqua
pelose di moschini
in un giorno assolato e senza vento
e a quella miracolosa pesca di persici
che fece Piero e me così fieri
così incommensurabilmente felici
per un giorno

E non c’è alcun ricordo del mio lago
senza la gloria finale d’un tramonto
Anche allora
vedemmo gli ultimi persici allamati
brillare in quella luce rossa e oro
in quell’orgoglio inaudito
di grandezza
con cirrocumuli brucianti di splendore
sopra le creste del Rosa

E quella stanchezza
presagio o nostalgia
che prende il pescatore al suo ritorno
Presto la tua festa
sfumerà nei colori del sogno
nella millanteria del ricordo
Nella favola forse
se non fosse
che Piero è altrove ora
e i persici
e i lucci

Con pazienza di superstite
come il mio lago
io conservo nel cuore
quello che ancora vive
e ciò che è morto



III
Negli occhi ho ancora
e resterà
io credo
fino all’ultima ora
la festosa fiera
di pesci multicolori
e d’ogni altra bizzarria marina
nelle gioiose acque
del Mar Rosso
dove solo pregare
puoi
per dominare un incanto
che acceca
e di parole e suoni
priva la mente
splendore abbacinante dell’ineffabile

E proprio in quell’immersione d’assoluto
capitò di pensare
al quieto avello varesino
a quelle poche specie tenaci
razze perseguitate
che vivono l’ombroso silenzio
delle acque morte
i disprezzati pesci d’acqua dolce

Oh povero gobbino iridato
che in questo inconfrontato mondo piccolo
per il tuo pallido splendore
vincesti il nome di persico sole
Tu che con cura parentale
l’isoletta di ghiaia e sabbia del tuo nido
proteggi
ardito
fino al punto d’affrontare l’alluce
che incauto lo profana

Proprio a te pensavo
e alla tenuità morbida
delle tue policromie
davanti alle creature che
con immagine svilente
le guide chiamano coloured fish

Ogni specie diversa
invece
e ognuna con un nome di leggenda
e con tinte inventate
da un bambino felice
Lente
sicure del loro paradiso
mi nuotavano intorno
in una primigenia innocenza
incolpevole certezza
della perfezione del mondo

Tu no
Tu sai bene la guerra
conosci gli anditi bui della fuga
e l’insidia dell’amo
e la rete
e il becco dello svasso che cala
improvviso e assassino
Conosci
il veleno che l’acqua corrompe
la melma maleodorante
che stringe la tua tana solare

Conosci
tu
la paura
l’incertezza di vivere
nell’intorbidamento di questo elemento vitale
nato per essere puro

Conosci il rischio
il dubbio
l’interminabile lentezza della morte

La mia esca
da un poco s’aggira nei pressi
il lombrico muove
nei suoi spasmi
la coda anguiforme
libera dal morso dell’uncino

Dalla barca
osservo lo strappo del galleggiante
e do con giusta forza la ferrata
senza sapere
s’è pietà o vittoria