domenica 20 maggio 2012

SEBASTIANO ADERNO' - QUATTRO POESIE TRATTE DA "IN LUOGO DEI PUNTI"






Nel 2010 vince il “Premio Ossi di Seppia” e si classifica terzo al Premio di poesia “Antonio Fogazzaro”. Dopo la sua opera prima Per gli anni a venire, Lietocolle (2011), ha pubblicato una raccolta dal titolo Kairos, Fara Editore (2011) e In luogo dei punti per Thauma edizioni (2012). Fa parte del collettivo ultranovecento, che realizza libri d’artista, con cui ha pubblicato una plaquette, Abissi non richiesti (2011), con un’opera di Marco Baj. È in uscita un romanzo, di cui è co-autore assieme al filosofo Leonardo Caffo, dal titolo Luci sulle lucciole per Edizioni Montag. 



IL LUOGO DOVE FUI IL LUOGO DOVE SARO’
(nel tempo che fui nel tempo che sarò) 

Questa raccolta di Sebastiano Adernò è una risposta forte e civile all’enorme quantità di dolore che ho visto nella mia esistenza, quale poeta ma, soprattutto, quale militare (ora ex) in zone di combattimento (anche da Adernò ricordate). Ormai è più che evidente che il problema “del male di vita” non lo si può risolvere a livello puramente intellettuale, perché sia l’irrazionale sia la carne vengono coinvolti, lanciando il loro grido, dimenandosi, creando forme, ulcerazioni, visioni, oppure impalpabili spettri (… le presenze peggiori). 
Infine è con tutto il proprio essere, in idea, in materia e in spirito, che avvertiamo l’ombra lunga che proietta  “la valle della morte”, acquisendo, in quella tenebra, verità fondamentali sulla nostra condizione umana. 
Scriveva Pascal: “Noi navighiamo in un vasto oceano, sempre incerti e instabili, sballottati da un capo all’altro dai flutti. Qualunque scoglio, a cui pensiamo di attaccarci e restare saldi, viene meno e ci lascia e, se l'inseguiamo, sguscia dalle nostre mani, ci scivola via e fugge in un’eterna erranza. Per noi nulla si ferma.” 
Quindi, e senza alcun dubbio, in questa vita si cresce, quasi unicamente, attraversando le avversità, e le sofferenze che esse procurano, piuttosto che tramite il successo, la vanità, l’illusione, la felicità, la gioia. 
Perciò è “nel perdere il vano sorriso” che si afferma il nostro essere e il nostro divenire, non tanto “nel vincere”, perché nulla c’è da vincere, se non, appunto, il Nulla. 
Infatti l’uomo che rincorre la fama in questa vita e, magari, la raggiunge, poi perderà tutto quando morirà, ma l’uomo che è già disposto a perdere fin dall’inizio e si pone sguarnito, semplice, conscio di tale condizione, diviene intoccabile anche di fronte alla morte, oltre che inarrestabile da chiunque altro, ed è allora che la sua pericolosità, qualora decida di agire in nome di un ideale, diventa a tal punto devastante che nessuno potrà sbarragli la strada, nessun proiettile lo ucciderà, nessuna parola di offesa lo scalfirà, e “il sorriso”, quello scaturito dalla consapevolezza di una condizione, carezzerà le sue labbra. 
L’apostolo Paolo più volte usò il termine greco astheneia per indicare come l’uomo, in corpo e in spirito, spesso si ritrovi in uno stato di fiacchezza, di debilitazione, quando le prove si fanno pressanti, ma astheneia significa anche precarietà, insufficienza, incapacità degli uomini di rapportarsi fra loro e di compiere il bene. 
Io sono certo che Sebastiano Adernò, partecipe laicamente di questa nostra mancanza costante (… soprattutto in questi tempi), abbia cercato, tramite il richiamarci a immagini cruente e a condizioni limite, di farci immergere nella nostra “zona oscura” al fine di attingere, proprio da quella, il coraggio e la fermezza per definirci vulnerabili, piccoli, polvere, muffa, ma pur sempre combattivi, pur sempre pronti a reagire, a porci presenti allorquando la necessità di scendere in campo ci chiama. 
L'incontro col terrore o, peggio, con l’orrore diventa, così, non solo un’esperienza di ordine individuale, ma comune, ‘junghianamente’ collettiva, planetaria, cosmica. 
Platone, Aristotele, Pitagora, Giordano Bruno, Spinoza, Leibniz e molti altri filosofi hanno spesso tirato in ballo le Monadi (dal greco monos, che significa uno, singolo, unico) per giustificare, teoricamente, anche le diversità fra individui, ma per tutti loro, sopra le stesse, esisteva un sola capacità ultrasensibile, totalmente altra, di trascendenza, riconducibile all’intero genere umano, che gli artisti definiscono, qualsiasi disciplina espressiva pratichino, poesia
Per il grande John Donne essa era la risposta per risolvere, dialetticamente, il proprio e l’altrui conflitto intellettuale e morale tra la difficoltà se non l’incapacità di relazione (la Babele) e il desiderio di reciproco slancio osmotico (l’Eden), essendo, la “sostanza” dell’esperienza esistenziale umana, infine la stessa in ogni individuo, seppure in tempi e spazi diversi. 
La poesia diviene così collante eterno che, abbattendo dimensioni spazio-temporali, ci unisce, ci lega, ai nostri contemporanei, ma anche a chi fu e a chi sarà, dimostrando-concretizzando tale comunione a seguito del come singole parole, oppure versi, o l’intero insieme lirico, colpiscano chiunque la cerchi e poi si trovi al suo cospetto, facendolo vibrare, facendolo pensare, facendolo emozionare e commuovere, per poi riportarlo al principio energetico, unico, che ci ha partorito. 
Reputo che la ricerca di un’azione comune e di un respiro condiviso sia, quindi, il volano del poetare di Adernò il quale, “in luogo di punti”, va a tracciare una linea (dialettica) ben netta fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto (operazione più che necessaria quando il Kaos diviene condizione dominante), ma tale linea poi diviene curva, e infine circolo (l’ a b c nella geometria euclidea come nella fisica quantistica) ritornando punto, se trasportata in ambito più vasto, e in tale cerchio-punto risiede il poeta, e lì sta, quando l’intero inizia a giragli attorno (vita, morte, guerra, carestia, vendetta, origine, fine, dolore, sangue, alienazione, bisogno, assenza totale dello stesso… cioè la vita nell’interezza e le tante vite di chi è venuto prima di lui, verrà dopo, ed è nel - suo - con/tempo). 
Lao Tzu, con saggezza mistica, diceva: “Senza muoversi si può conoscere il mondo, senza guardare fuori dalla finestra si può vedere la via del cielo. Più si va, meno si sa.” 
Anche senza essere andato, ecco come il poeta entra nell’umano, viaggia nell’altrui e, con l’altrui, percepisce, coglie, sente, immagazzina, diviene biblioteca e memoria, elabora, emette, in modo da poter dire anche se non ha vissuto ciò che invece, a un suo simile, ha ustionato la pelle. 
Ed ecco il perché uno come me ascolta Adernò, perché Adernò ha testimoniato egregiamente, e testimonia, senza essere stato presente, o essere presente (e lo ripeto), quello in cui io, invece, mi sono immerso e ricordo, in cicatrici, più che bene. 
Ogni uomo è lo stesso uomo seppure in tempi e spazi diversi… rammentiamo tale assioma quando ci avviciniamo alla poesia, quando decidiamo di ascoltare il poeta (… il vero poeta), perché egli non finge quando dice di essere stato colpito all’addome in Libia, sebbene mai sia stato in Africa, così come non mente quando afferma di avere partorito un figlio, sebbene egli non sia femmina, ma maschio. 
Il poeta è quell’uomo che raccoglie in sé tutti gli uomini (tutti i punti) e se ne fa carico (e dico questo senza alcuna retorica), è quell’uomo che ha stretto alleanza con loro, è quell’uomo che di loro si preoccupa, è quell’uomo che li vive e da loro si fa vivere, consapevole che “i confini dell’anima sono irraggiungibili, per quanto si trovino nelle più estreme profondità del singolo, come nelle più alte vette della moltitudine” (Eraclito), e Sebastiano Adernò sa bene questo, ma di ciò non si vanta, altro non fa che sottostare a un compito, e tracciare tangenze e diagonali. 
Perciò “in luogo dei punti”, un contatto. 

Gian Ruggero Manzoni 
[ Postfazione alla raccolta In luogo dei punti ]









Luglio nero del 1995



Luna grave, barbara voglia
vita magra
fino al collare di puttana.

La notte era avvezza
alle protuberanze di un rospo
che sbraitava con tutta la disfatta
stipata nel gozzo.

Mladić teneva accesa la paura del buio
così
suonò due volte la mezzanotte
e uscì lesercito
per andare ad incidere
di sette millimetri
la ghiandola colpevole
dell'altra razza.






Samir



Ha attraversato il diluvio.
Ripassato il gesto
da un polso allaltro.

Fuggire di notte. Tra le bombe.
Come compilare un errore
e portarselo per mare.

Cinque giorni
scandendo le parole:

perciò - figlio mio -
gioiello
sfuggi al macero,
non cadere nel tranello apparecchiato,
taci, prega
e scalza la faciloneria di ogni invito.

I trafficanti son golosi di ortica.

Tu mantieniti puro
meridiano,
collegamento al perfetto calendario,
di ciò che in te
- con una lacrima aggiunse -
ha predisposto il cielo.






Il sarto di Ulm



Stamane anche il sarto
è convinto che si possa volare.

Ma il padrone forte
daver imparato a dire noi
per evitare di essere sincero
lo licenza ridendo del candore
della sua obiezione.

Dietro i telai come bottoni trattenuti
alla provvidenza dei mansueti
                               gli altri osservano,
poi qualcuno
stanco di mimare la pace
sforbiciando in verticale
si libera dal grembiule le scapole
corre al megafono e lo senti urlare:

PER SCARDINARE
SERVONO GLI ZIGOMI SPORGENTI
DEL MILIZIANO
DUNQUE
SCIOGLIETE I CANI
AFFONDATE GLI INCISIVI
NELLA TRAVE
SEGATE I TIRANTI
DI QUESTO CIRCO TRONFIO
E SODDISFATTO
COME LORGOGLIOSA
IMPUNITÀ
DELLE SUE TROIE RISULTANTI.

E il ferro torna a vibrare.






Epigrafe



Io sarò,
e mi coglierai
non in gesti servili
e deludenti
tali da sembrare
altrimenti
robuste faccende
                           del corpo
ma nel macello,
appena sotto il filo di sangue
della mano col coltello
che incide,
scioglie la matassa dei nervi,
solleva la carne.









                  Le poesie qui presentate sono tratte da: 
                  IN LUOGO DEI PUNTI, Thauma Edizioni, 2012











sabato 19 maggio 2012

PAOLO SANTARONE - LAGO DI VARESE





Quel che dice di sé:

« Un po’ di romanzi nel cassetto… poesie e racconti… (tanti).Una scrittura che con slanci e pause dura da più di mezzo secolo…In un lontano passato ho pubblicato testi di divulgazione storica per ragazzi, e molte traduzioni (perfino una versione in prosa dell’Eneide)… Poi sono vissuto della mia scrittura come “writer” in una grande azienda.  Qualcuno là mi chiamò “penna d’oro”, da cui un mio verso “penna d’oro per oro venduta”. 

Nell’ultimo scorcio dello scorso secolo ho fondato, con altri, la rivista on line “Pseudolo” vissuta circa 6 anni. Alcuni abbastanza cospicui ruderi di “Pseudolo” sono ancora visitabili nel sito: www.giuseppecornacchia.com/pseudolo. 

Credo ci sia ben poco d’altro da dire: vivo a Daverio, vicino Varese, mi piace viaggiare e più che bipolare, mi definirei ciclotimico. » 

 

Paolo Santarone, che non conosco come scrittore, comincio però a conoscere come poeta. Un poeta i cui lineamenti sono, di fatto, secondo me, piuttosto “proteiformi”, ma un raro poeta - con una voce e uno stile assai variegati, certo - purtuttavia saldamente in possesso (e pienamente conscio) della sua propria cifra poetica. Un raro poeta ho detto. Sì, perché Santarone conosce a fondo e utilizza l’intera tradizione poetico-letteraria italiana ed europea, e tutto un patrimonio di tradizioni, usi e costumi legati (non solo) all’essere - nella propria anima e nella propria lingua originaria - un lombardo. Il suo lavoro (per quanto poco io possa conoscerlo) contiene, insieme a una sorta di vena epico-visionaria, un'ispirazione antopologico-naturalistica, guidate entrambe, sì dal sentimento, ma per nulla sentimentali… Il suo lavoro, dicevo, è governato anzitutto da un grande rigore metodico. Credo che ciò ne dica tutta la classicità. E c’è anche, nella poesia di Paolo, l’alta ironia tipica dei grandi. Per quanto detto, il nostro poeta – che non occupa alcun posto speciale nella poesia odierna, non sarebbe comunque incasellabile in un qualsivoglia movimento letterario più o meno importante. Egli mi sembra, invece, destinato a percorrere e ripercorrere in solitaria la distanza fra i suoi diversi “cuori”. Il senso di quest’ultima affermazione cercherò di precisarlo così: “il poeta latino Ennio sosteneva di avere tre cuori, tanti quante erano le lingue che parlava: l’osco, il greco e il latino. Ed aveva ragione: ogni lingua infatti, lungi dall’essere soltanto un efficientissimo sistema di comunicazione, è una filosofia, un modo di pensare, di concepire e, secondo alcuni, addirittura di creare il mondo. La lingua è il deposito più profondo di una civiltà; è quanto di più autenticamente proprio e durevole questa va lentamente depositando e conservando nell’intimo della sua storia”, come scrive Fabrizio Galvagni in Piö ’n là , Rime, versi liberi e traduzioni in dialetto bresciano, Editrice La Rosa, Brescia, 1994. D’altra parte un proverbio ungherese dice: Tante lingue conosci (parli) tante persone sei. Per parlare una lingua è necessario diventare un’altra persona: si può, infatti, conoscere veramente una lingua se si impara a pensare come la gente che la parla. Ogni lingua è lo specchio della vita, della cultura di un popolo, quindi della civiltà di un gruppo etnico, di una nazione intera. Nel caso del poeta Paolo Santarone, direi che sono stati e saranno i suoi diversi cuori a determinarne i caratteri essenziali, i cifrari, il multiforme stile, le frontiere da varcare, il destino poetico.

Antonino Caponnetto


AVVERTENZA: di Paolo Santarone cisiamo già occupati su questo blog (si veda: PIERO E IL RITORNO DELLA NEBBIA)









Lago di Varese



I
Saltano i pesci del lago
in questa calda foschia
Rapido schiocco d’acqua
uno spruzzo
e il lento seguire dei cerchi
che quietamente diradano

Gioco d’amore
forse
o
talora
un diversivo contro il predatore
un tentativo di fuga

Sotto il crespo pel d’acqua
qualcosa accade
atto segreto e celato
mistero che le ninfee
e le castagne d’acqua
proteggono
intrico di gambi verdi

Non sa
il pescatore
l’esito della lotta
di sangue o d’amore
A lui solo è dato
vedere quel salto
atto senza apparente ragione
con i suoi brevi effetti
sulla piana densa
opaca d’alghe minuscole
del lago

Pure
il pescatore ha parte
in questi segreti lacustri
lui che quieto da ore
sulla barca aspetta

Aspetto?
Distratto
l’occhio solo di rado cade
sul galleggiante
lontano e improbabile
Non attendo
altro accadimento
che questa vita acquatica

Soltanto sto
Anch’io senza vere ragioni
o con oscuro movente
anch’io puro fatto
essenza
Il pescatore sulla vecchia barca

Questo immotivato essere
fa anche me parte del mistero
attore della recita
in una sala senza spettatori
Lago
barca
pescatore e pesce
e intorno
la spietata agonia del giorno
trionfale corrusca attesa
della melanconia del crepuscolo

E col pesce divido il suo segreto


II
Da quando avevo diecianni
conosco quest’acqua immota
lago senza emissari
uno stagno quasi
una palude

Conosco il suo lento morire
da quando
trovai chiazze verdi sulla pelle
da curare con pomate
dopo un felice bagno
alla Baia del Re

Mai fu agonia così contrastata
né lotta per vivere più forte
Il lago s’è fatto
negli anni
ricetto d’ogni tipo d’uccelli
e i canneti s’estendono
in un brulicare d’anime e di verde

Qui vivono ancora
molti dei miei pesci infantili
lo splendente gobbino
che prende nome dal Sole
l’alborella e il triotto
che qui chiamiamo trollino
riverberanti d’argento
il persico trota
vorace e così sciocco che
noi del lago
diamo il suo nome ai creduloni
la misteriosa anguilla
crepuscolare
e l’infestante scardola
forte della sua
incommestibilità

Qui crescono ancora
piante dai grandi fiori le ninfee
e la castagna d’acqua
dal frutto a tricorno con cui
ai tempi
s’ornavano di collane le ragazze

Scomparsi
invece
il luccio
barracuda delle saghe piscatorie
e il persico reale
dalla livrea striata

Scomparsi

La memoria soltanto mi riporta
a quei fanciulli pescatori
con le gambe a mezz’acqua
pelose di moschini
in un giorno assolato e senza vento
e a quella miracolosa pesca di persici
che fece Piero e me così fieri
così incommensurabilmente felici
per un giorno

E non c’è alcun ricordo del mio lago
senza la gloria finale d’un tramonto
Anche allora
vedemmo gli ultimi persici allamati
brillare in quella luce rossa e oro
in quell’orgoglio inaudito
di grandezza
con cirrocumuli brucianti di splendore
sopra le creste del Rosa

E quella stanchezza
presagio o nostalgia
che prende il pescatore al suo ritorno
Presto la tua festa
sfumerà nei colori del sogno
nella millanteria del ricordo
Nella favola forse
se non fosse
che Piero è altrove ora
e i persici
e i lucci

Con pazienza di superstite
come il mio lago
io conservo nel cuore
quello che ancora vive
e ciò che è morto



III
Negli occhi ho ancora
e resterà
io credo
fino all’ultima ora
la festosa fiera
di pesci multicolori
e d’ogni altra bizzarria marina
nelle gioiose acque
del Mar Rosso
dove solo pregare
puoi
per dominare un incanto
che acceca
e di parole e suoni
priva la mente
splendore abbacinante dell’ineffabile

E proprio in quell’immersione d’assoluto
capitò di pensare
al quieto avello varesino
a quelle poche specie tenaci
razze perseguitate
che vivono l’ombroso silenzio
delle acque morte
i disprezzati pesci d’acqua dolce

Oh povero gobbino iridato
che in questo inconfrontato mondo piccolo
per il tuo pallido splendore
vincesti il nome di persico sole
Tu che con cura parentale
l’isoletta di ghiaia e sabbia del tuo nido
proteggi
ardito
fino al punto d’affrontare l’alluce
che incauto lo profana

Proprio a te pensavo
e alla tenuità morbida
delle tue policromie
davanti alle creature che
con immagine svilente
le guide chiamano coloured fish

Ogni specie diversa
invece
e ognuna con un nome di leggenda
e con tinte inventate
da un bambino felice
Lente
sicure del loro paradiso
mi nuotavano intorno
in una primigenia innocenza
incolpevole certezza
della perfezione del mondo

Tu no
Tu sai bene la guerra
conosci gli anditi bui della fuga
e l’insidia dell’amo
e la rete
e il becco dello svasso che cala
improvviso e assassino
Conosci
il veleno che l’acqua corrompe
la melma maleodorante
che stringe la tua tana solare

Conosci
tu
la paura
l’incertezza di vivere
nell’intorbidamento di questo elemento vitale
nato per essere puro

Conosci il rischio
il dubbio
l’interminabile lentezza della morte

La mia esca
da un poco s’aggira nei pressi
il lombrico muove
nei suoi spasmi
la coda anguiforme
libera dal morso dell’uncino

Dalla barca
osservo lo strappo del galleggiante
e do con giusta forza la ferrata
senza sapere
s’è pietà o vittoria












 




lunedì 14 maggio 2012

ALBA GNAZI - QUATTRO POESIE INEDITE







Notizia Autobiografica:

Alba Gnazi, nata nel ’74 in provincia di Roma; fin da ragazzina per me le parole sono una chiave e un ponte, un codice privilegiato e misterioso, un canto: leggo da quando ne ho memoria.  Cresciuta con la narrativa italiana e americana, con le prose omeriche e i classici per ragazzi, da adolescente incappo nella Poesia di Montale: esperienza totale e definitiva, che si fa esplosiva quando mi imbatto, un po’ più in là,  in T.S. Eliot.  Ho pubblicato un breve libro di narrativa nel 2010, ho partecipato, e qualche volta anche vinto, a concorsi di Poesia e di racconti di genere vario. Ho scritto delle recensioni per alcune riviste letterarie e musicali  e collaborato all’organizzazione di eventi culturali.








NON ASPETTARE NESSUNO




Offrirsi un appoggio, rilassarsi al di sopra del 
solitario paesaggio di facce
frammentate
nel retrovisore
facce sgombre di corpi, facce
quali nudi e lontani aquiloni offuscati
dal feroce tramonto.

Truci le voci
vibranti in discromia con le
derive di passioni accerchiate dalle
baionette del quotidiano,
Voci
sparute nei petti schermati,
voci sterili e assassine,
voci solerti, bambine voci, voci
in punta di pianto.

Voci che non ti aspettano.

Che non si aspettano più.

Spolveri la tua sera con un dito,
spolveri la ruggine dalle tue ciglia,
dalle tue mani scivolano legioni di nervi,
frammenti di aria sporca di compromessi
vengono inghiottite dai passi rossi del sole che in basso s’incunea
- ed è a te che s’inchina.

Sorridi alle tue mani, alla tua sera, ai tuoi silenzi privi di echi,
e anche al sole sornione, solenne scriba del Tempo.

Silenti ora le voci
Sotto sipari di mesta consuetudine,
Voci taciturne che sfiorano con mute labbra
fronti profumate di oceano
mentre
tra le  bianche dita dei figli dormienti
incastrano lacrime e sconfitte, incredule speranze, esultanze e omissioni,
Dichiarazioni d’amore e battaglie strette tra
un peluche e scorrerie di luce che
lampa e scompare e ritorna e bacia
il muro la finestra il figlio la Voce il tappeto.

Stappi l’ultima bottiglia, assapori il buio sotto la lingua,
buio che favilla e t’acquieta,
posi il bicchiere, il corpo lasso, la bottiglia

posi gli occhi su un’immagine,
su un’idea lucida che si accorcia, si sfilaccia, s’assottiglia,
posi il sonno tra le ciglia.

Voci e facce hai congedato, mentre la notte
tra i tuoi abiti e nelle tue pantofole s’incaglia
e come un gatto resta lì,
a luce spenta, sopita con un occhio solo,
lesta ad agguantare l’alba e a stringerla in un tango
quando
la vita in caute forme
si raggruma e poi si sparpaglia.
Tu volti il fianco, ritrovi il sogno, sospiri piano.

Immemore
la notte seduce l’alba
poi
ti torna accanto e
muore
a te vicino.


                                                                      14/3/12







NEBULOSA 26/12                                




Mischiando
I tuoi suoni col mio umore
I tuoi colori con le mie parole
I tuoi silenzi con le mie virtù

Ricercando
Linearità al confine
Delle tue nebbie sparse
Scompiglio nella simmetria
Delle scale ritmiche delle mie scelte

Centrando
Obiettivi spuri di
Imbellettata protervia, lussureggiante nullità
Sapremo di essere la
Differenza
Di una somma già sottratta
Risulta impudica e aspra
D’una dignità sedotta

In musica scomposti
Dalla musica generati
Fedeli a noi stessi
Che oltre obliqui specchi
Ci siamo riconosciuti.

                                                                      26/12/09







CUORE D’APRILE




Avresti anche potuto credermi
(dispersa io)
se le coltri bianche non
t’avessero raggrumata
non t’avessero raccolta
nella fossa d’un letto sbarrato
se aprile avesse portato
mozziconi di salsedine e
nidi tra le pergole.

Avresti potuto credermi
sorridendo del mio borbottio
vacillante e sfumato
se ti fossi annodata i lacci delle scarpe e
sorretta da pareti di gratitudine
sfacciata avessi riso
uscendo a guardar le nubi.

Avrei anche potuto crederti
(dispersa tu)
se la grandine dei tuoi denti
fossa scrosciata come pioggia gentile
se le foglie di aprile
fossero ingiallite, vizze
di annoiata allegria
se il cane non avesse riparato
- riparando la coda tra le zampe -
nell’andito di polvere e ragni
tra scope e saponi il sentore di te
che lì dentro
- lui lo sapeva -
non avresti sbirciato più.

Avrei anche potuto crederti
affogati gli occhi nel sole
se
il freddo che erano le tue mani
avesse acciottolato bisbigli di
pigne e calore
accanto al fuoco denso e nero
se non avesse tinto
all’improvviso
di ghiaccio il tuo viso
se al freddo ch’era
il mio cuore d’aprile
avessi potuto infine offrire
aliti di primavera
noncurante di te.


                                                                      25/8/09







A ME, ADESSO 




Acquistarti alla luce è stata una vittoria
Scritta su ogni sasso, sospinta da ogni albeggiante maroso.

Di riconoscenza in dimenticanza ho vissuto
Scrutandoti
Temendo quasi che un estro malevolo ti
Ghermisse via da qui, via
Da me, ora seduta a
Guardarti fisso negli occhi, ammirandone gli
Angoli,
occhi pesanti, alla fronte appesi come
Gemme tagliate da mani sapienti
E ogni giorno tirate a lucido.

Se sciogliessi i grani del tempo in acque
Di sorgiva, odoroso sarebbe il
sentore di quel
Noi
(oggi dirompente) che
ieri non avanzava, fitto di
Speranze abbracciate a una roccia, più tenaci di uno stormir di
Foglie, o di promesse.

Tu sai.

Dolce è ora poter delineare il tuo profilo,
conscia di noi, delle nostre mani vicine,
assorte nella stessa Musica,
coltivate dallo stesso sole,
sorvegliate dalla stessa primavera che
Iside sedusse con un bacio di Luna.

Mi alzo, tu con me.
Non servono parole, tra noi.
Ti porgo l’ombrello, tu sosti con una mano sul bavero della mia giacca.
Il sorriso ci fa Una.

Sei la Me della penombra. La Me che sotto urlava.
La Me che mi addormentava, che in me sognava, che a me anelava,
amandomi, riamata;
la Me che incontravo nello specchio e nelle poesie,
e che ora è Tutta
e Tutto.
Sei il qui che non cambia,  l’adesso che non si sposta;
Sei la Musica delle Parole che appassiscono fertili,
e germogliano antiche,
che
Della Storia sigillo si fanno, e condanna, e dominio.

Tempo di andare, mi dici.
Tempo di tornare, ti dico.

Rientrare in sé è patteggiare la pena coi tribunali interiori,
è Sapersi
per meglio Rispettarsi, per ancora
Aspettarsi.
Allo Specchio sono Io,
Io sola.

Una Musica lieve arpeggia coi miei tendini; sui miei passi
costruisce sinfonie
Rosse di sole
Sotto
la breccia dell’orizzonte
che sempre inghiotte terra e sabbia
e rose larghe come aquiloni.


                                                                       21/4/12