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Danilo Dolci durante uno sciopero per l’acqua a Roccamena. 1964. A destra in basso, Ignazio Buttitta
[ in: http://casarrubea.wordpress.com/ ]
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Ancora a proposito di Danilo Dolci
Alcuni di voi ricorderanno che il nostro blog ha dedicato tempo fa un primo post a Danilo Dolci, alla sua vicenda di costruttore di pace, di educatore, sociologo, scrittore, poeta, di uomo fra gli uomini.
Per le notizie bio-bibliografiche e i vari riferimenti riguardanti la sua scelta di vita e la sua opera, rinviamo al post anzidetto, cui si può accedere cliccando qui.
Nel presente post non ci occuperemo dei versi di Dolci, scritti sempre e solo come appunti, in quel modo particolarissimo e tipico che egli aveva di far poesia e scrittura, guardando dritta negli occhi ogni realtà individuale, ogni singolare sofferenza, ogni individuale bisogno. Con uno sguardo fraterno partecipe, vòlto a comprendere, a educare a una lotta collettiva e nonviolenta, sempre e soltanto verso il buono, il bello, il giusto.
Per le notizie bio-bibliografiche e i vari riferimenti riguardanti la sua scelta di vita e la sua opera, rinviamo al post anzidetto, cui si può accedere cliccando qui.
Nel presente post non ci occuperemo dei versi di Dolci, scritti sempre e solo come appunti, in quel modo particolarissimo e tipico che egli aveva di far poesia e scrittura, guardando dritta negli occhi ogni realtà individuale, ogni singolare sofferenza, ogni individuale bisogno. Con uno sguardo fraterno partecipe, vòlto a comprendere, a educare a una lotta collettiva e nonviolenta, sempre e soltanto verso il buono, il bello, il giusto.
Non vogliamo qui proporre i versi di questo raro uomo, ma riportare invece un documento importante. Si tratta dell’arringa pronunciata in difesa di Dolci dal grande giurista e “padre costituente” Piero Calamandrei, in occasione di un processo che all’epoca fece scalpore.
Buona lettura.
Buona lettura.
A. C.
IN DIFESA DI DANILO DOLCI (di Piero Calamandrei)
Pubblicato in “Quaderni di Nuova Repubblica”, 4,
1956, p. 15, anche in “Il Ponte”, XII, 4, aprile 1956, pp. 529-544 e in
Processo all’art. 4, “Testimonianze”, 8, pp. 291-316. Testo stenografico dell’arringa
pronunciata il 30 marzo 1956 dinanzi al Tribunale penale di Palermo.
[ Danilo Dolci era stato arrestato il 2 febbraio
1956 per aver promosso e capeggiato, insieme con alcuni suoi compagni, una
manifestazione di protesta contro le autorità che non avevano provveduto a dar
lavoro ai disoccupati della zona: la manifestazione era consistita nell’indurre
un certo numero di questi disoccupati a iniziare lavori di sterramento e di
assestamento in una vecchia strada comunale abbandonata, detta “trazzera
vecchia”, nei pressi di Trappeto (provincia di Palermo), allo scopo di
dimostrare che non mancavano né la volontà di lavorare né opere socialmente
utili da intraprendere in beneficio della comunità. I principali capi di accusa
riguardavano la violazione degli articoli 341 (oltraggio a pubblico ufficiale),
415 (istigazione a disobbedire alle leggi), 633 (invasione di terreni) del
Codice penale. ]
Signori Giudici.
Questo processo avrebbe potuto concludersi, meglio
che con la parola mia, con la parola di un giovane. Le parole dei giovani sono
parole di speranza, preannunziatrici dell’avvenire: e questo è un processo che
preannuncia l’avvenire.
Avrebbe dovuto parlare prima l’imputato, Danilo
Dolci che è un giovane; e dopo di lui, non per difenderlo ma per ringraziarlo,
il più giovane dei suoi difensori, l’avvocato Antonino Sorgi.
Se si fosse fatto così questo processo sarebbe
finito da cinque giorni; e da cinque giorni Danilo Dolci e gli altri imputati,
i cosiddetti “imputati”, sarebbero tornati a Partinico, invece di tornarvi,
come vi torneranno, soltanto stasera, dopo l’assoluzione, a far Pasqua con le
loro famiglie.
Ma forse, per la risonanza nazionale e sociale di
questo processo, è stato meglio che sia avvenuto così: che abbiano parlato
anche i vecchi e meno giovani; e non brevemente.
E così l’onore e la responsabilità di chiudere la
discussione e di rivolgervi, signori giudici, l’ultima preghiera che vi
accompagnerà in camera di consiglio, sono toccati a me; non solo per la mia
età, ma forse anche perché io sono qui, unico tra i difensori, soltanto un
avvocato civilista, cioè un avvocato che non ha esperienza professionale di
processi penali.
Questo, infatti, non è un processo penale: o
almeno non è quello che i profani si immaginano, quando parlano di un processo
penale.
Nel processo penale il pubblico concentra i suoi
sguardi sul banco degli imputati, perché crede di vedere in quell’uomo, anche
se innocente, il reo, l’autore del delitto: l’uomo che ha ripudiato la società,
che è una minaccia per la convivenza sociale.
L’imputato è solo, inconfondibile, diverso agli
occhi del pubblico da tutti gli altri uomini, isolato dentro la sua gabbia e,
anche quando la gabbia non c’è, isolato dentro la sua colpa.
Ma questo non è un processo penale: dov’è il reo,
il delinquente, il criminale? Dov’è il delitto, in che consiste il delitto, chi
lo ha commesso?
Angosciose domande: alle quali forse neanche il
P.M., nella sua misurata requisitoria che abbiamo ammirato non tanto per quello
che ha detto quanto per quello che ha lasciato intendere senza dirlo, saprebbe
in cuor suo dare una tranquillante risposta.
Non a caso qui il banco degli imputati e quello
dei difensori sono così vicini, fino a parere un banco solo. Dove sono gli
imputati e dove i difensori? Qui, in realtà, o siamo tutti difensori o siamo
tutti imputati.
In questa aula, da qualunque parte ci volgiamo,
nei vari seggi di essa, non ci sono altri che uomini che si trovano qui, perché
hanno voluto e vogliono prestare ossequio alla legge: osservarla, servirla.
La sigla è quasi si direbbe il vertice magico di
questo processo è in quella formula laconica intarsiata con caratteri antichi
sulla cattedra ove siedono i giudici. Non è la solita frase che in altre aule
si legge scritta sul muro al disopra delle teste di giudici, quella frase che
suscita tante speranze ma anche tante perplessità: “La legge uguale per tutti”.
No: il motto di questa aula è molto più laconico, misterioso e conciso come la
risposta di un oracolo: “La legge”.
Questo è l’imperativo categorico che ci tiene
tutti qui incatenati dallo stesso dovere, appassionati dalla stessa passione: “de
legibus”.
Il Tribunale che siede è per definizione l’organo
che, amministrando giustizia, fa osservare la legge.Il P.M., che siede al lato
del collegio giudicante, è il rappresentante della legge.Noi avvocati siamo
qui, al nostro posto, per difendere la legge. Dietro a noi, a fianco degli
imputati e sulle porte, i commissari e gli agenti di polizia sono gli esecutori
della legge.
E poi ci sono questi imputati: imputati di che?
Mah... di nient’altro che di aver voluto anch’essi servire la legge: di aver
voluto soffrire la fame e lavorare gratuitamente allo scopo di ricordare agli
immemori il dovere di servire la legge.
Ma allora vuol dire che siamo tutti qui per lo
stesso scopo: quale è il punto del nostro dissidio, quale è il tema del nostro
dibattito? Perché noi avvocati stiamo a questo banco degli imputati dietro a
noi e i giudici nei loro seggi più alti? di che stiamo noi discutendo?
In verità io non riesco a riconoscere su queste
facce di imputati, così tranquille e serene, le tristi impronte della
delinquenza; né riesco a scoprire nelle umane facce dei carabinieri che stanno
accanto a loro la fredda insensibilità dell’aguzzino. Io so che essi, quando
mettono le manette a questi imputati, si sentono in fondo al cuore umiliati e
addolorati di questo crudo cerimoniale, che pure hanno il dovere di compiere:
quando la mattina gli imputati entrano in quest’aula incatenati, come prescrive
il regolamento di polizia, non sono essi che provano rammarico e vergogna per
quelle catene. Ho visto con i miei occhi che, nonostante quei polsi serrati
nelle manette, le loro facce rimangono serene e sorridenti; ma un’ombra di
mestizia traspare sui volti di chi li accompagna.
No no, il dissidio non è qui, in questa aula: il
dissidio è più lontano e più alto. Sarebbe follia pensare che Danilo abbia
potuto indirizzare agli agenti che lo arrestarono, fatti della stessa carne di
questi che oggi lo accompagnano, l’epiteto di “assassini”. Danilo non parlava
e non parla a loro. Gli assassini ci sono, ma sono fuori di qui, sono altrove:
si tratta di crudeltà più inveterate, di tirannie secolari, più radicate e più
potenti; e più irraggiungibili.
Di quello che è avvenuto, signori del Tribunale,
non si deve dare colpa alla polizia, la quale è soltanto una esecutrice di
ordini che vengono dall’alto. In quanto a me, vi dirò anzi che ho sentito dire
che io dovrei essere debitore, verso qualcuno degli agenti che hanno deposto in
questo processo, di speciali ragioni di gratitudine. Dai resoconti dati dalla
stampa su una delle prime udienze, alla quale io non ho potuto partecipare, ho
appreso che io dovrei ringraziare quel funzionario di polizia che oggi è
commissario a Partinico, il dottore Lo Corte, del trattamento di favore che
egli mi avrebbe usato a Firenze, nel periodo in cui egli apparteneva alla
polizia della Repubblica di Salò: pare che nella sua deposizione egli abbia
detto che mi trattò con speciale riguardo perché, quando venne al mio studio
per arrestarmi, arrivò un quarto d’ora dopo che io ero uscito e così lasciò
ineseguito il suo mandato. In verità io non mi ricordo di lui: e non so se devo
essere grato a lui per essere arrivato un quarto d’ora dopo o a me stesso per
essere uscito un quarto d’ora prima. Ma in ogni modo sono anche disposto ad
essergli riconoscente: non sono queste vicende personali le cose che contano in
questo processo.
Quello che conta è un’altra cosa: conoscere il
perché umano e sociale di questo processo, collocarlo nel nostro tempo;
vederlo, come tu ben dicevi, o amico Sorgi, storicamente, in questo periodo di
vita sociale e in questo paese.
Io ho ammirato, lo ripeto, la misura con cui ha
parlato il P.M.; ma su due delle premesse (oltreché, ben s’intende, su tutte le
sue conclusioni) non posso essere d’accordo: e cioè quando egli ha detto che
questa è “una comunissima vicenda giudiziaria”, e quando ha detto che per
deciderla il Tribunale dovrà tener conto della legge ma non delle “correnti di
pensiero” che i testimoni hanno portato in questa aula.
Dico, con tutto rispetto, che queste due
affermazioni mi sembrano due grossi errori non soltanto sociali, ma anche
specificamente giuridici. Non sono d’accordo sulla prima premessa. Questo non è
un processo “comunissimo”: è un processo eccezionale, superlativamente
straordinario, assurdo. Questo non è neanche un processo: è un apologo.
Un processo in cui si vorrebbe condannare gente
onesta per il delitto di avere osservato la legge, anzi per il delitto di aver
preannunciato e proclamato di volere osservare la legge: arrestati e rinviati a
giudizio sotto l’imputazione di volontaria osservanza della legge con l’aggravante
della premeditazione!
Per renderci conto con distaccata comprensione
storica della eccezionalità e assurdità di questo processo, bisogna cercare di
immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a 50 o a 100 anni, agli occhi
di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in
mente di ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo
processo, per riportare in luce storicamente, liberandolo dalle formule
giuridiche, il significato umano e sociale di questa vicenda.
Quali apparirebbero agli occhi dello storico gli
atti più significativi di questo processo?
La sua attenzione si fermerebbe prima di tutto su
quella ordinanza del giudice istruttore, con la quale, per negare agli
arrestati la libertà provvisoria, si è testualmente affermato la “spiccata
capacità a delinquere del detto imputato”: il “detto imputato”, per chi non
lo sapesse, sarebbe Danilo Dolci.
Suppongo che il magistrato che scrisse questa
frase non abbia immaginato, al momento in cui la scrisse, il senso di sgomento
che in centinaia di migliaia di italiani questa frase ha suscitato, quando l’hanno
letta riferita sui giornali: senso di sgomento per lui, non per Danilo Dolci.
Ma, insomma, questa frase è stata scritta; e tra
cinquant’anni lo storico la potrà leggere e potrà dire a se stesso:-Ecco, ho
avuto la mano felice: ho trovato un caso interessante, il processo di un gran
delinquente, un caso tipico di “spiccata capacità a delinquere”.
Ma che cosa ha fatto mai Danilo Dolci per
dimostrare questa sua “spiccata capacità”?
La capacità a delinquere, per me avvocato civilista,
ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale. Sotto l’aspetto giuridico mi pare
che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui; sotto l’aspetto
sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta
di solidarietà e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è
civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato
egoismo, un solitario incapace di vivere in società.
Dunque lo storico che si metterà a sfogliare questo
processo, quando saranno da lungo tempo caduti e dimenticati quegli articoli
della legge di pubblica sicurezza e del codice penale di cui stiamo qui a
discutere da una settimana (quegli articoli che già assomigliano a quei gusci
vuoti che rimangono attaccati ai tronchi degli ulivi quando già ne è volato via
l’insetto vivo), scorrerà attentamente gli incartamenti per ricercare le prove
di questa “spiccata capacità a delinquere” che l’ordinanza istruttoria con
tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica
giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi
imputati? In che modo avevano offeso il diritto altrui; in che senso avevano
offeso la solidarietà sociale e mancato al dovere civico di altruismo?
Lo storico arriverà a trovare documentati nel
seguito del processo due “misfatti”.
Io mi limito a leggere qualche passo di un solo
documento: di un documento che è ancora nelle mie mani e che dà a questa mia
difesa il carattere non solo di una testimonianza, ma anche, come ieri vi
dicevo, di una complicità.
Quando alla fine dello scorso gennaio Danilo
Dolci, dopo essere stato a Torino per consultarsi con i suoi amici sulle azioni
che si proponeva di svolgere a Partinico, passò da Firenze nel viaggio di ritorno,
venne al mio studio per consigliarsi anche con me come legale ed esser sicuro
che quello che stava per fare entrasse perfettamente nei limiti delle leggi.
Non mi trovò; e allora mi lasciò una copia del foglietto che in questo momento
vi sto leggendo, con questa nota scritta di suo pugno: “Speravo di vederti e di
avvisarti. Un saluto con affetto. Tuo Danilo”. Quando tornai dopo due giorni, e
lessi il foglietto, il quale conteneva, come ora vi dirò, il programma di
quello che stava per succedere a Partinico, trovai che niente di quello che era
preannunciato in tale programma poteva in qualsiasi modo andar contro alle
leggi o ai regolamenti di polizia: e per questo mi guardai bene dall’avvertire
Danilo Dolci, che intanto era ritornato a Partinico, di astenersi dal fare
quello che si proponeva. Se in quello che ha fatto c’è qualche cosa di
contrario alla legge, sono dunque responsabile anch’io di complicità e, e forse
la mia responsabilità è più grave della sua, perché io dovrei avere quella
conoscenza tecnica delle leggi che Danilo non ha.
Dunque, vi dicevo, in questo documento che sto per
leggervi c’è la prova di due misfatti.
Il primo misfatto è quello che si proponevano di
compiere lunedì 30 gennaio i pescatori di Trappeto.
Si legge testualmente in questa dichiarazione:
“abbiamo ripetutamente documentato alle Autorità
direttamente responsabili e all’opinione pubblica, per anni e anni, la pesca
fuori legge della zona, gravissimo danno a tutti noi e all’economia nazionale.
“ E’ profondamente doloroso e offensivo constatare
che lo Stato non sa far rispettare le sue leggi più elementari, più
giustificate: i mezzi di informazione e di pressione normali in uno Stato
civile, qui sono stati assolutamente inefficaci. Decisi a fare rispettare le
leggi, promuoviamo un movimento che non si fermerà fino a quando il buon senso
e l’onestà non avranno trionfato. Inizieremo lunedì, 30 gennaio, digiunando per
24 ore.”
Seguono circa 300 firme tra loro sono anche
numerosi vecchi e ragazzi con piena coscienza dell’azione.
Questo è dunque il primo misfatto. Le circostanze
sono semplici e chiare. Una piccola popolazione di poveri pescatori vive alla
meglio con la pesca del suo mare. Per legge, il tratto di mare più vicino alla
costa è riservato alla pesca della popolazione rivierasca; i motopescherecci,
devono tenersi al largo. Ma qui i motopescherecci, per vecchio sistema, si
beffano sfrontatamente della legge; da tempo vengono a pescare nel mare vicino
alla riva, predando il pesce che dovrebbe dar da vivere ai piccoli pescatori.
Così i pescatori locali non hanno più da pescare; questa sistematica rapina dei
motopescherecci appartenenti a grandi società organizzate e protette dalle
autorità, condanna i piccoli pescatori a morire di fame. Ricorrono alle
autorità; ma le autorità non provvedono. Protestano, ma le autorità non
ascoltano. Il contrabbando continua: qualcuno pensa che le autorità siano d’accordo
coi contrabbandieri; e che ci sia qualcuno in alto che partecipa agli utili del
contrabbando.
Allora che cosa fanno i pescatori che da anni
reclamano giustizia e non riescono ad averla da chi dovrebbe darla: si
ribellano? Si mettono a tumultuare? Rubano? Commettono violenze?
Niente di tutto questo. Arriva Danilo in mezzo a
loro e dice: “Voi non avete da mangiare: non avete di vostro altro che la
fame. L’unica protesta che vi rimane è questa: la vostra fame. Siete abituati a
digiunare, andiamo tutti insieme a digiunare sulla spiaggia del mare. Stiamo a
guardare, digiunando, i contrabbandieri protetti dalle autorità, che continuano
a far rapina del pesce che la legge vorrebbe riservato a voi. Consoliamoci
insieme col nostro digiuno; mettiamo in comune questo nostro unico bene, la
fame. E per essere più sereni, porteremo sulla spiaggia qualche disco e
ascolteremo la musica di Bach”. (Qualcuno ha sorriso su questo particolare
della musica: non ha ricordato che anche nella prima guerra mondiale questo era
il motto dei fanti inchiodati nelle trincee: “canta che ti passa”.)
Allora vengono fuori i commissari di polizia, gli
agenti dell’ordine. Voi pensereste che intervengono finalmente per rimettere
nella legalità i moto pescherecci contrabbandieri e per far cessare la loro
rapina. No gli agenti dell’ordine intervengono per pigliarlsela con Danilo: per
diffidare Danilo e i pescatori dal mettere in atto il loro proposito.
- non è permesso digiunare: vi vietiamo
formalmente di digiunare.
-Ma come possiamo non diginare se non abbiamo più
pesce da pescare?
-Non importa: digiunate a casa vostra, in privato,
in segreto.
E’ un delitto digiunare in pubblico. Digiunare in
pubblico vuol dire disturbare l’ordine pubblico.-
l’ordine pubblico di chi? L’ordine pubblico di chi
ha da mangiare. Non bisogna disturbare con spettacoli di miseria e di fame la
mensa imbandita di chi mangia bene; non bisogna che la gente ben nutrita, che
va sulla spiaggia a passeggiare per meglio digerire il suo pranzo, sia
disturbata dalla modesta vista dei pallidi affamati.
Questo è il primo misfatto: ora viene il secondo.
Si legge sul solito documento.
“I cittadini di Partinico, donne comprese,
proseguiranno l’azione giovedì 2 febbraio come è detto nella loro
dichiarazione:
“Milioni di uomini nelle nostre zone stanno sei
mesi all’anno con le mani in mano. Stare sei mesi all’anno con le mani in mano
è gravissimo reato contro la nostra famiglia contro la società.
“Solo qui in Partinico su 25000 abitanti siamo in
più di 7000 con le mani in mano per sei mesi all’anno e 7000 bambini e
giovanetti non sono in grado di apprendere quanto assolutamente dovrebbero. Non
vogliamo essere dei lazzaroni, non vogliamo arrangiarci da banditi: vogliamo
collaborare esattamente alla vita, vogliamo il bene di tutti: e nessuno ci dica
che questo è un reato.
“E’ nostro dovere di padri e di cittadini
collaborare generosamente perché cambi il volto della terra, bandendo gli
assassini di ogni genere. Chiediamo alle autorità, di collaborare con noi,
indicando quali opere dobbiamo fare e come: altrimenti, assistiti dai tecnici,
cominceremo dalle più urgenti.
“ Perché sia più limpido a tutti il nostro
muoverci, digiuneremo lunedì 30 gennaio; giovedì 2 febbraio cominceremo il
lavoro. Frangeremo il pane con le mani.
“Vogliamo essere padri e madri anche noi e
cittadini.”
Seguono circa 700 firme.
Anche le circostanze di questo secondo misfatto
sono chiare.
Ci sono a Partinico, oltre pescatori, altre
migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un
dovere. Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre
dei ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno
alla macchia, diventano banditi?
No. Decidono di lavorare: di lavorare
gratuitamente; di lavorare nell’interesse pubblico.
Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata,
una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci passa più, perché il
comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa impraticabile
dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: “Ci metteremo a riparare
gratuitamente la trazzera , la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando da
questo avvilimento quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che
è l’ozio forzato. In grazia del nostro lavoro la strada tornerà ad essere
praticabile. I cittadini ci passeranno meglio. Il sindaco ci ringrazierà”. Che
cosa è questo? E’ la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata,
se il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i
cittadini volenterosi si organizzano in squadre per fare essi, di loro
iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e non fa; e la stessa
cosa che avviene, e spesso è avvenuta, quando, a causa di uno sciopero degli
spazzini pubblici, i cittadini volenterosi si sono messi a rimuovere dalle
strade cittadine le immondizie e in questo modo si sono resi benemeriti della salute
di tutti.
Giustamente uno dei difensori che mi hanno
preceduto, il collega Taormina, ha detto che questo è un caso di “negotiorum
gestio”: un caso, si potrebbe dire, di esercizio privato di pubbliche funzioni
volontariamente assunte dai cittadini a servizio della comunità e in ossequio
al senso di solidarietà civica.
Allora, per impedire anche questo secondo
misfatto, arrivano i soliti commissari Lo Corte e Di Giorgi, e questa volta non
si limitano alle diffida e questa volta non si limitano alle diffide. Questa
volta fanno di più e di meglio: aggrediscono questi uomini mentre pacificamente
lavorano a piccoli gruppi dispersi sulla trazzera, strappano dalle loro mani
gli strumenti del lavoro, lì incatenano e li trascinano nel fango, tirandoli
per le catene come carne insaccata, come bestie da macello.
Bene.
Rimane dunque inteso che digiunare in pubblico è
una manifestazione sediziosa; che lavorare gratuitamente per pubblica utilità,
per rendere più strada una pubblica strada, è una manifestazione sediziosa.
E a questo punto interviene il giudice istruttore
a dare il suo giudizio: “spiccata capacità a delinquere”.
E poi riprende la parola il P.M.: “otto mesi di
reclusione a Danilo Dolci e ai suoi complici”.
Bene.
Ma come può essere avvenuto questo capovolgimento,
non dico del senso giuridico, ma del senso morale e perfino del senso comune?
Guardiamo di rendercene conto con serenità.
Al centro di questa vicenda giudiziaria c’è, come
la scena madre di un dramma, un dialogo tra due personaggi, ognuno dei quali ha
assunto senza accorgersene un valore simbolico.
E’, tradotto in cruda rossa di cronaca
giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende
la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della
coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire.
Nella traduzione di oggi, Danilo dice: “per noi la
vera legge e la Costituzione democratica”; il commissario Di Giorgi risponde: “per
noi l’unica legge è il test unico di pubblica sicurezza del tempo fascista”.
Anche qui il contrasto è come quello tra Antigone
e Creonte: tra la umana giustizia e i regolamenti di polizia; con questo solo
di diverso, che qui Danilo non invoca leggi “non scritte”. (Perché, per chi non
lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni.)
Chi dei due interlocutori ha ragione?
Forse, a guardare alla lettera, hanno ragione tutt’e
due.
Ma a chi spetta, non dico il peso e la
responsabilità, ma dico il vanto di decidere, sotto questo contrasto letterale,
da che parte è la verità: a chi spetta sciogliere queste antinomie?
Siete voi, o Giudici, che avete questa gloria: voi
che nella vostra coscienza, come in un alambicco chimico, dovete fare la
sintesi di questi opposti.
E qui affiora il secondo sul quale io mi trovo in
dissidio con le premesse affermate dal P.M.:, quando egli ha detto che i
giudici non devono tener conto delle “correnti di pensiero”, che i testimoni
accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in questa aula.
Ma che cosa sono le leggi , illustre
rappresentante del P.M. se non esse stesse “correnti di pensiero”? Se non
fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo
libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.
E invece le leggi sono vive perché dentro queste
formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l’aria
che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il
nostro sangue e il nostro pianto.
Altrimenti le leggi non restano che formule vuote,
pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la
nostra volontà.
Voi non potete ignorare, signori Giudici, poiché
anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il carattere
eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione
sociale e di grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute: felici
i giovani che hanno davanti a se il tempo per vederle compiute!
Questo è uno di quei periodi, che ogni tanto si
presentano nella vita dei popoli, in cui la gloria di poter costruire
pacificamente l’avvenire, il vanto di poter guidare entro la legalità questa
trasformazione sociale che è in atto e che non si ferma più, spetta soprattutto
ai giudici. Nella storia millenaria del nostro paese più volte si sono
presentati questi periodi di trapasso da un ordinamento sociale ad un altro,
durante i quali l’altissimo compito di adeguare il diritto alle esigenze della
nuova società in formazione è stato assunto dalla giurisprudenza: basta pensare
ai responsa dei prudentes, che hanno gradualmente fatto vivere nella rigidezza
del diritto quiritario lo spirito cristiano trionfante nella legislazione
giustinianea, o alle opiniones doctorum, che attraverso la decisione di singoli
casi giudiziari hanno introdotto negli schemi del diritto feudale lo spirito
umanistico del diritto comune.
Anche oggi l’Italia vive uno di questi periodi di
trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una
legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa
dalla Costituzione.
La nostra Costituzione è piena di queste grandi
parole preannunziatrici del futuro: “pari dignità sociale”; “rimuovere gli
ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”; “Repubblica
fondata sul lavoro”; “Diritto al lavoro”; “condizioni che rendano effettivo
questo diritto; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza
libera e dignitosa”...
Grandi promesse che penetrano nei cuori e li
allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi
pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto
e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora
essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far
male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?
Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che
cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle
sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come
scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto. Affinché la legalità
discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non
dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute
così.
Ricordate le parole immortali di Socrate nel
carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di
conoscenza. “le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano”. Perché le
leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano come
quelle di Socrate, le “nostre” leggi.
Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra,
in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe
e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c’è
una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!
Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che
grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto
che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato con un nemico. Lo
Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il
signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei
grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla
povera gente come lo Stato del popolo.
Da secoli i poveri hanno il sentimento che le
leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della
giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto
per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per
gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi
giusti reclami.
Nella prefazione che Norberto Bobbio ha dettato
per il libro di Danilo Dolci Banditi a Partinico, è riportato come tipico un
episodio.“Ho fatto più di quattro domande per avere la pensione -dice il
padre.-Niente. Mi mandano a chiamare i carabinieri:-ci vuole questo
documento.-Subito facciamo questo documento, subito. Poi mi mandano a chiamare
in Municipio e mi dicono che ci voleva stato di famiglia, atto matrimoniale,
fede di nascita, fede di morte di mio figlio, tutto. Ci ho fatto tutto. Ci ho
mandato in Municipio stesso, da lì a Roma. Niente. Dal 1942. E 12 anni “ca ci
cumbattu cu sta pensioni”. E la moglie: “Have a cridere che a mia mi ritiraru
lu librettu e mi disseru:-Ora se nè pò ire che vossìa have la pensioni”.
Questa è la maledizione di Partinico, ma questa è
sempre stata anche la maledizione d’Italia. In ogni regione d’Italia più o
meno è così: le leggi per gli umili non contano. Per avere giustizia dagli
uffici amministrativi occorre farsi raccomandare da qualche personaggio
importante o strepitare. Ma forse neanche screditare conta; perché se strepita
il povero, viene il commissario Di Giorgi che lo porta in prigione.
E allora ecco Danilo:
-Basta con questa maledizione, basta con questa
sfiducia; ma basta anche con la violenza. Voi dovete credere nelle leggi; voi
dovete credere nella giustizia di chi governa. La legge è come una religione
(una religione di cui questa aula giudiziaria è un tempio). Perché la legge
faccia i suoi miracoli, bisogna crederci.-
È un ingenuo? È un illuso?
Danilo è stato paragonato a Renzo dei promessi
sposi, nella famosa scena dell’osteria.
Ricordate? “pane, abbondanza, giustizia”. Lo sente
dire da Ferrer, che era una specie di prefetto di quei tempi. Renzo ci crede:
anche lui si mette a ripetere “pane, abbondanza, giustizia”. E va a finire
nelle mani dei birri.
Anche Danilo è andato a finire in prigione. E
dunque anche lui soltanto ingenuo? Soltanto un’illuso? No: Danilo è qualche
cosa di più. Non dimentichiamo come è cominciata la vicenda di Danilo. Il caso
determinante della sua vita è stato l’incontro con un bambino morto di fame.
Quando nell’estate del 1952 Danilo ebbe visto morire di fame il figlioletto di
Mimma e Giustina Barretta, allora egli si accorse di trovarsi “in un mondo di
condannati morte”; e gli apparve chiara l’idea che questo mondo non si redime
con la violenza, ma col sacrificio. Fu allora che disse: “su questo stesso
letto dove questa creatura innocente è morta di fame, io, che potrei non essere
povero, mi lascerò morire di fame come lui, per portare una testimonianza, per
dare con la mia morte un esempio, se le autorità non si decideranno a
provvedere”. E dopo una settimana di digiuno, che già aveva ridotto Danilo in
fin di vita, le autorità finalmente intervennero, non per pietà, ma per
liberarsi dalla responsabilità di lasciarlo morire; essi decisero di offrire
subito le prime somme occorrenti per pagare i debiti dei pescatori e dei
braccianti del luogo e, e per iniziare i lavori di sistemazione delle strade e
delle acque. Poi nuovamente si fermarono: ma soltanto così Danilo era riuscito
a svegliare il torpore burocratico dei padroni. Ma ecco che qui entra ancora in
scena il commissario Di Giorgi, che in questo dramma rappresenta la quotidiana
certezza del conformismo, la voce scettica dei benpensanti:
-Danilo Danilo, sono utopie, sono illusioni! (“fanatismo
mistico” ha detto ieri il P.M.).
Par che dica, il commissario Di Giorgi: -Danilo,
ma chi te lo fa fare? Sei giovane, sei istruito, sei un architetto, uno
scrittore. Non sei di queste terre desolate. Torna ai tuoi paesi. Lascia i
poveri di Partinico in compagnia della loro miseria e della loro fame...
Danilo, chi te lo fa fare?-
La voce del buonsenso, la voce dei benpensanti; ma
Danilo non è un benpensante, non segue la rassegnata è soddisfatta voce del
buonsenso.
Danilo mi fa venire in mente la storia di fra
Michele Minorita. È un’antica cronaca fiorentina, rievoca anche la figura di un
monaco, appartenente all’ordine dei “fraticelli della povera vita”, che
praticavano la povertà assoluta che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli
apostoli non avevano mai riconosciuto la proprietà privata. Il Papa Giovanni
XXII condannò questa affermazione come eresia: e fra Michele per averla predicata
fu condannato, nel 1389, al rogo.
La cronaca racconta la prigionia e il processo e
descrive il corteo che accompagnò dalla prigione al supplizio il condannato e
le sue soste lungo la strada, come se fossero le stazioni della Via Crucis. Dal
carcere del Bargello per arrivare al rogo egli passa, scalzo e vestito di pochi
cenci, in mezzo agli armigeri, per le vie di Firenze. Due ali di popolo lo
stanno a vedere: e gli lanciano al passaggio frasi di incitamento e di scherno,
invocazioni esaltate o beffardi consigli. I più lo consigliano all’abiura: “sciocco,
pentiti, pèntiti, non voler morire, campa la vita!”. Ed egli risponde, mentre
passa, senza voltarsi: “pentitevi voi de’ peccati, pentitevi delle usure, delle
false mercantzie”. (Forse tra quel pubblico che lo incitava a pentirsi e a non
voler morire c’era anche, pieno di buone intenzioni, il commissario Di Giorgi: “Illusioni,
utopie, chi te lo fa fare?”.)
A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo,
poiché ancora uno dei presenti torna a gridargli: “Ma perché ti ostini a voler
morire?”, egli risponde: “Io voglio morire per la verità: questa è una verità,
ch’io ho albergata in me, della quale non se ne può dare testimonio se non
morti”. E con queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per dar
fuoco, ecco che arriva un messo dei Priori a fare un ultimo tentativo, per
persuaderlo a smentirsi e così salvargli la vita. Ma egli dice di no. E uno degli
armigeri, di fronte a questa fermezza, domanda: “ma dunque costui ha il diavolo
addosso?”; al che l’altro armigero, nel dar fuoco, risponde (e par di sentire
la sua voce strozzato dal pianto): “Forse ci ha Cristo”.
Per questo, signori Giudici, voi avete visto le “correnti
di pensiero”, che in questo momento sono vicine a Danilo, sfilare in quest’aula
a testimoniare. Esse non sono arrivate qui per esercitare su di voi pressioni o
intromissioni sulla vostra coscienza intemerata e fiera: sono venute soltanto
per testimoniare la loro solidarietà a Danilo. Ma questa solidarietà della
cultura italiana per Danilo Dolci è un fatto, che voi non potete ignorare;
siete anche voi uomini del nostro tempo, e anche voi sentite il dovere di
valutarle, di spiegarle storicamente.
Come si può spiegare questa solidarietà?
Certamente voi avete avvertito nelle parole di questi testimoni non soltanto un
senso di solidarietà e quasi di complicità con Danilo, ma altresì un senso più
profondo, quasi direi di umiliazione e di contrizione di questa cultura: per
aver tardato tanto ad accorgersi di questi dolori; per aver atteso, prima di
accorgersi, che fosse Danilo a dare l’esempio.
Il carattere singolare ed esemplare di Danilo
Dolci e proprio qui: di questo uomo di cultura, che per manifestare la sua
solidarietà ai poveri non si è accontentato della parola parlata o scritta, dei
comizi, degli ordini del giorno e dei messaggi; ma ha voluto vivere la loro
vita, soffrire la loro fame, dividere il loro giaciglio, scende nella loro forzata
abiezione per aiutarli a ritrovare e a reclamare la loro dignità e la loro
redenzione.
Questa è la singolarità di Danilo: qualcuno
potrebbe dire l’eroismo; qualcun altro potrebbe anche essere tentato di dire la
santità.
Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a
ripetere che la cultura, se vuol essere viva e operosa, qualcosa di meglio dell’inutile
e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non deve
rinchiudersi nella torre d’avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte
alla porta di strada. Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma
tuttavia siamo incapaci di ritrovare il contatto fraterno con la povera gente.
Siamo pronti a dire parole giuste; ma non sappiamo rinunciare al nostro pranzo,
al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi
e la gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo
invisibile, che ci rende difficile la comunicazione immediata. Il popolo ci
sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di parole sia
soltanto oratoria.
Per Danilo no. L’eroismo di Danilo è questo: dove
più la miseria soffoca la dignità umana, egli ha voluto mescolarsi con loro e
confortarli non con i messaggi ma con la sua presenza; diventare uno di loro,
dividere con loro il suo pane e il suo mantello, e chiedere in cambio ai suoi
compagni una delle loro pale e un po’ di fame.
Questo intellettuale triestino, che se avesse
voluto avrebbe potuto costruirsi in breve, coi guadagni del suo lavoro di
artista, una vita brillante e comoda in qualche grande città e una casa piena
di quadri e di libri, è andato a esiliarsi a Partinico, nel povero paese
rimasto impresso nei suoi ricordi di bambino, e si è fatto pescatore affamato e
spalatore della trazzera per far intendere a questi diseredati, con la
eloquenza dei fatti, che la cultura è accanto a loro, che la sorte della nostra
cultura è la loro sorte, che siamo, scrittori e pescatori e sterratori, tutti
cittadini dello stesso popolo, tutti uomini della stessa carne. Egli ha fatto
quello che nessuno di noi aveva saputo fare. Per questo sono venuti qui da
tutta Italia gli uomini di cultura a ringraziarlo: a ringraziarlo di questo
esempio, di questo riscatto operato da lui, agnus qui tollit peccata di una
cultura fino a ieri immemore dei suoi doveri.
Certo, Danilo Dolci non è un personaggio comodo
per i commissari di pubblica sicurezza. Io mi immagino i loro discorsi: “In
fondo, un brav’uomo. Ma uno scervellato, un seccatore, un piantagrane”.
Mi viene in mente una lettera scritta pochi giorni
fa dal mio amico Jemolo a una altissima autorità. Dopo avere attestato l’altezza
morale di Danilo, egli continuava: “Certo sarà noioso per le autorità
costituite; ma pensa quanto lo saranno stati a loro tempo San Francesco o San
Bernardino da Siena”.
Si, i santi sono noiosi: e in generale, anche
senza disturbare santi, è certo che in questa società compressa da una crosta
di accomodante scetticismo sono noiosi in generale gli uomini onesti, gli
uomini che prendono le cose sul serio. Per chi sta bene e ha la vita facile,
sono insopportabili questi importuni che ricordano col loro esempio, fastidioso
come un rimprovero vivente, che nel mondo esiste la onestà e la dignità.
Imparai da ragazzo su qualche antologia un
episodio della vita di un santo; in questi giorni mi è tornato in mente. Vi
confesso che a Firenze, prima di partire per venir qui, invece di consultare i
codici per prepararmi a questa discussione, mi sono messo a ricercare nelle
vite dei santi il testo preciso di questo episodio: mi pareva di ricordarmi che
fosse nella vita di San Filippo Neri ma non l’ho trovato. Forse è nella vita di
Don Bosco.
Certo, o l’uno o l’altro, si trattava di un santo:
ma finché fu vivo era considerato come un terribile spettatore dei ricchi, alle
cui porte andava a battere ogni giorno per chiedere carità per i poveri. A
tutti i momenti se lo ritrovavano dinanzi: lì perseguitava con le sue
preghiere, fino a che anche i più avari, pur di levarselo di torno, gli davano
quello che chiedeva: e lui correva a portare pane agli affamati.
Un giorno andò a bussare alla porta di un signore
ricchissimo, ma particolarmente iracondo e prepotente: e tanto insistè,
nonostante i ripetuti dinieghi, che questo alla fine, gonfio d’ira, lo investì
di ingiurie e lo prese a schiaffi. Il santo stette impassibile a ricevere le
percosse senza muoversi, come se fosse il pagamento di una cosa dovuta: senza
neanche ripararsi il viso con le mani (forse lo fece per non essere imputato,
dal P.M. di quei tempi, di “resistenza”). E alla fine, quando quel prepotente
si fu sfogato, riprese candidamente: “sta bene, questi sono per me: il conto
torna. Ma ora bisogna riprendere il nostro discorso: bisogna che tu mi dia i
denari per i poveri...”.
Io mi auguro che il P.M. ritrovi per conto suo il
testo originale dove questo episodio è raccontato per esteso. Siamo d’accordo:
anche Danilo è un seccatore: per questo gli hanno messo i ferri; per questo lo
hanno arrestato; per questo lo hanno trascinato nel fango; per questo lo
vorrebbero tenere per altri otto mesi in prigione.
E sia pure. E poi? E i disoccupati di Partinico? E
la fame di Partinico? I bambini che muoiono di fame a Partinico? Che darete ad
essi? Che parola di speranza di conforto uscirà per essi dalla vostra sentenza?
No, questa non è, onorevole signor P.M., una “comunissima
vicenda giudiziaria”. Questo non è il processo di Danilo Dolci. Su quella panca
degli imputati non c’è lui; altre colpe, altre incurie, altre crudeltà, altri
delitti siedono su quella panca: tutti li conosciamo anche voi li conoscete.
Questa non è la causa di Danilo; e neanche di
Partinico; e neanche della Sicilia. E’ la causa del nostro Paese: del nostro
Paese da redimere e da bonificare.
Si parla tra i giuristi di “bonifica
costituzionale”; siate voi, magistrati, gli antesignani di questa bonifica.
Nella Maremma della mia Toscana, nelle terre incoltivate che si distribuiscono
ai contadini, per poter arrivare a seminare bisogna prima spezzare la crosta di
tufo pietroso che vi è depositata da due millenni di alluvioni; per spezzarla
occorrono i trattori: e solo così, sotto quella crosta, si trova la terra
fertile e fresca, e in essa, ancora intatte le tombe dei nostri padri etruschi.
Bisogna in tutta Italia spezzare nello stesso modo
questa crosta di tradizionale feudalesimo e di inerte conformismo burocratico
che soffoca la nostra società: e ritrovare sotto la crosta spezzata il popolo
vivo, il popolo sano, il popolo fertile, il popolo vero del nostro Paese: e le
tradizioni di saggia ed umana equità che esso ha conservato dai lontani
millenni.
Vorrei, signori Giudici, che voi sentiste con
quale ansia migliaia di persone in tutta Italia attendono che voi decidiate con
giustizia, che vuol dire anche con indipendenza e con coraggio questa causa
eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che apra il cuore della speranza,
non una sentenza che ribadisca la disperazione.
Colleghi e amici siciliani, noi siamo venuti in
Sicilia, e vi ringraziamo di averci consentito di essere qui al vostro fianco,
per dirvi che tutto quello che vi addolora, tutto quello che vi offende,
addolora e offende anche noi. Questa vostra angoscia è anche la nostra
angoscia: anche noi ci sentiamo bruciare dal vostro sdegno. Vogliamo anche noi
prendere sulle nostre spalle, con l’aiuto della Costituzione, il destino del
nostro Paese.
Qualche giorno fa, sfogliando un giornale
straniero, vi ho letto una notizia dall’Italia che mi ha fatto arrossire. C’era
scritto, a proposito di questo processo di Danilo, questo titolo: “In Italia a
chi chiede rispetto della Costituzione si nega la libertà provvisoria”. Non è
vero, non è vero! Signori Giudici, diteci che non è vero! Permetteteci di dire
agli stranieri che non è vero!
Voi dovete aiutarci, signori Giudici a difendere
questa Costituzione che è costata tanto sangue e tanto dolore voi dovete
aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà.
Vedete, in quest’aula, in questo momento, non ci
sono più giudici e avvocati, imputati e agenti di polizia: ci sono soltanto
italiani: uomini di questo Paese che finalmente è riuscito ad avere una
Costituzione che promette libertà e giustizia.
Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza,
aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa
Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia
è pari dignità!
PIERO CALAMANDREI
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Avrei voluto, meditando questo post dare al lettore alcune poesie di Danilo Dolci, ma sono stato preso da una sorta di necessità emotiva, se tale può essere una necessità, quella cioè di dare una informazione documentaria fondamentale, semplicemente riportando la trascrizione integrale dell'arringa che avrete già letto sopra. Solo un lungo testo, un atto processuale ormai da tanti dimenticato. Ma il tempo che viviamo, almeno così io credo, non ci autorizza a far poesia se non teniamo conto di ciò che nutre il male e nega ciò che è buono, bello e giusto (nel senso che questo aveva per gli antichi greci). Ed è solo tenendone conto e negando ciò che ci è negato, è soltanto lottando per ricondurre a noi stessi la nostra umanità che possiamo, allora e solo allora, occuparci ancora di poesia, di arte, di bellezza.
RispondiEliminaA. C.
Voglio ringraziare i redattori di questo blog, anzitutto per la scelta dei poeti che presenta, ma anche per la ricchezza dei materiali che mette a disposizione. E’ importante per me trovare qui il nome di Danilo Dolci: per quanto l’editoria italiana lo trascuri, Dolci è un mirabile esempio di vita a cui ispirarsi. La sua poesia è l’evidente conseguenza delle sua scelte verso gli altri e verso un futuro che ne confermi la fraternità, l’appartenenza alla famiglia umana. Anche l’arringa del grande Calamandrei era da citare per chi volesse avere un’idea di quante e quali grandi menti condivisero l’azione di Dolci, su quali amici Danilo durante la sua vita poté contare, di quanti stettero allora e di quanti stanno oggi dalla sua parte. Forse senza saper nulla dell’esistenza di questo Giusto. Buon lavoro. Marco Tebaldi
RispondiEliminaCome ho detto in un commento alle poesie di Alessandro Canzian, questo blog è stato ed è per me un incontro fortunato, una casualità che si è trasformata in assidua frequentazione delle sue “pagine”, nelle quali spesso ritrovo lo stupore del primo “incontro”. Non conoscevo la figura di Danilo Dolci prima di imbattermi qui nel “post alfa” a lui dedicato. Ho approfondito per conto mio la vita e le vicissitudini conseguenti alla sua scelta di vita. E ho potuto leggere altrove l’arringa pronunciata da Calamandrei in difesa di Dolci e dei suoi compagni meno noti.
RispondiEliminaRitrovare qui questo importante discorso del suo grande difensore, è un fatto che mi commuove. Se intuisco bene le intenzioni del redattore, credo che a questo post ne seguirà qualcun altro con le poesie di Danilo, e forse qualcuno con qualche stralcio dai suoi racconti-intervista, più noti come “Racconti siciliani”. Con un sincero ringraziamento e un gratissimo saluto.
Antonella Veronetti
Ancora una volta grazie, Antonino. Cordialmente
RispondiEliminaGiorgio Antinori